Vite da un giorno

Una fiaba contemporanea

9:30

La mela

Nascita

["correre tra le praterie di mondi che alcuni occhi non sanno vedere"]


Dilaniato.

Fu il primo aggettivo che gli parve adatto allo scenario che si trovò di fronte: piatti e bicchieri sporchi in ogni angolo, due pentole sopra altrettanti fornelli macchiati, la tovaglia stropicciata sul tavolo, e briciole, briciole ovunque. Duro risveglio.

Forzò l'apertura delle sue palpebre lottando contro il giorno - una luce violenta che sfondava le tapparelle e illuminava ogni angolo della cucina senza pudore nè riguardo alcuni. Anche la polvere era luminosa.

Zoppicò verso la sedia più vicina, dentro il sole, come l'ultimo superstite. Issò un braccio sullo schienale e lasciò cadere l'altro sul tavolo. Tentò nuovamente di aprire gli occhi, ma venne ancora sconfitto; questa volta da se stesso, dalla stanza desolata, dalla polvere, dalle briciole. Richiuse le palpebre e tornò in grembo ai sogni: iniziò a rastrellare le visioni oniriche della notte in cerca di qualche presagio per il veniente giorno - e setacciava ogni immagine con una cura maniacale, ogni dettaglio, ogni figura, ogni sensazione: e che fossero reali visioni o vane speranze, poco importava, purchè servissero a riavvolgerlo nell'incarto dei sogni e riparalo dai colpi del giorno appena nato.

Era precariamente disoccupato Pro. Talmente precario che il solo pensiero del lavoro riuscì a sbarrargli le palpebre, richiudere il libro dei sogni e spalancare il sipario sulla battaglia d'un altro giorno.

Quelli di casa erano tutti al lavoro, tutti che non poteva disturbare nessuno. Tutti che il silenzio era neve. Buttò lo sguardo sul cesto lì di fronte: le mele. Ne scelse una e l'accompagnò fin sotto il naso - una mela gialla, così bella che mentre la fissava pareva arrossire sulle guance, ed erano guance d'una donna che si lascia baciare, guance di un bimbo col fiatone. Pochi sguardi e Pro si dedicò anima e corpo a quel gesto mattutino riservandogli tutto il tempo necessario per tornare a scorrazzare tra i sogni - benchè gli avessero chiuso il libro - attingendo poesia dall'enormità di un piccolo gesto: un rito capace di farlo correre tra le praterie di mondi che alcuni occhi non sanno vedere.

Roteava la mela nella mano sinistra mentre ne sfiorava delicatamente la pelle, le forme, le lentiggini. Roteava la mela avvicinandola alle proprie labbra, e appena affondò i denti accese tutta una festa di sapori - aspra e dolcemente frizzante - risvegliò i propri sensi e si ricordò d'avere una bocca, due labbra e una lingua. Provò a pennellare il suo giorno con le medesime tinte della mela.

Devo affondare i denti per riuscire a gustarlo, capace di celare il succo in luoghi così semplici da non pensarci. Maestro nel concedersi solo quando si sente unico.


Ancora issato alla sedia, Pro continuò a gustare la mela vagando tra pensieri tutti suoi.

È capace di attraversarti a pezzi ma di riempirti ovunque. Può colpirti dove ti credi forte e risparmiarti quando resti senza difese; superbo nel raccontarsi per anni senza mai lasciarsi conoscere davvero. Riesce a sollevarti in cima a luoghi fantastici per poi lasciarti cadere tra i tuoi peggiori incubi: è donna la vita, estranea anche quando dice d'esser tua.


Un timido sorriso gli accese il volto.
C'era riuscito Pro, con un piccolo gesto. Nell'intento di strappare un sogno dal grembo della notte aveva intersecato un pezzetto del mondo onirico con quel suo neonato giorno reale. Era riuscito a saldare la fragilità dell'uno con la precarietà dell'altro, e ansioso di verificare quanto fossero vere quelle sue congetture, abbandonò la desolazione della cucina alla volta del bagno.

Respirava da solo Pro.
Respirava così abbondantemente da fischiettare.

10:30

Alla finestra

Primi passi

["per certo nulla che sia privo di equilibrio potrà mai stare in piedi"]


La doccia aveva innaffiato quelle fragili supposizioni fino a renderle granitiche certezze: l’avrebbero finalmente chiamato – una voce professionale e falsamente amichevole, il lavoro.

Questa volta non sarà il solito colloquio, che ormai tutte le agenzie di Torino hanno una scheda col mio nome, questa volta sarà una conferma.


E già s’immaginava un daltonico sorriso di benvenuto, poche istruzioni e una salda stretta di mano – sinistra se possibile, che lui era mancino.

Saranno anche stati pochi minuti di fredda chiacchierata, ma li avranno finalmente convinti che qualcosa la so fare anch’io!
Assunto. Sette lettere. Comincerò subito? Oggi pomeriggio?
Facciamo domani, così ho il tempo di prepararmi.


E nel mentre che assemblava congetture e accendeva il cellulare, furono sufficienti pochi attimi perché un sordo frinire spappolasse il torpore della stanza: BIP – BIP – il cuore di Pro venne shakerato da un cocktail di paura e sorpresa. Il sorriso crebbe fino a riempirgli il volto. Contemplò qualche istante l’immagine della bustina sul display – gli dava sicurezza e lo faceva sentire agganciato al resto del mondo – e aprì il messaggio.

Aveva l’abitudine di leggere i messaggi a voce alta perché così gli sembrava che fossero qualcosa di più simile a un dialogo che al testo di un grigio display.

“Spot: Vinci subito un fantastico viaggio tutto per te. Visita il nostro sito internet o vai alla pagina del televideo. Non aspettare!”


Pro, che di internet conosceva pressappoco il nome, accantonò il cellulare sul divano e normalizzò i battiti del cuore.

“C’è scritto cretino qui, vero?”, la sua voce mattutina risuonò più dolce del solito.


Ma bastarono pochi secondi perché si desse anche una risposta, silenziosa, come tutto quel suo personalissimo dialogo, ma pur sempre una risposta. Gli bastarono pochi secondi per convincersi che qualche equilibrio cosmico doveva pur esserci. E’ vero, a lui non era concesso di prevederne gli effetti né di comprenderne le dinamiche, ma per certo nulla che sia privo di equilibrio potrà mai stare in piedi; e quel mondo era lì, ben saldo sulle proprie gambe. Non sarebbe stata l’assunzione – almeno per ora – ma neanche un altro anno senza vacanze. Il fantastico viaggio premio sarebbe stato un giusto compromesso.

Vorrei conoscere qualcuno, almeno uno, un’altra persona nell’accozzaglia di quanti siamo che si meriterebbe un premio più di me. Un fantastico viaggio, esatto. Chi? Chi di viaggi potrebbe permettersene uno al mese? E poi, perché mai chi potrebbe permettersi un viaggio al mese non dovrebbe gustarsi il piacere d’un viaggio al mese? Per lavorare, giusto. Ma lavorare per cosa? Per potersi permettere almeno un viaggio al mese; e mandare messaggi. A chi? A chi vorrebbe potersi permettere un viaggio al mese...


E nel mentre che l’unico viaggio lo stavano facendo i suoi pensieri, alla ricerca d’una logica impiccata, Pro s’accinse a sfidare una volta per tutte le leggi di quel misterioso equilibrio: raccolse il telecomando, pigiò un tasto e ascoltò la stanza riempirsi di voci come fumo colorato. Posizionò il televideo alla pagina indicata nel messaggio e guardò i numeri scorrere veloci – impaziente, appiccicato allo schermo come se volesse entrarci – finché la pagina arrivò, ma con il testo incompleto, illeggibile. Doveva attendere un altro giro di numeri, un’altra estrazione, un’altra possibilità.

Aveva sempre amato i rebus, ma adesso che dietro la soluzione c’era il suo viaggio premio, continuava a strizzare il telecomando cercando di scaricare l’attesa. Era così determinato a sfidare il misterioso equilibrio che si dimenticò anche della ragione: s’era illuso che il televideo, perché visualizzato dentro il suo televisore, fosse diverso da tutti gli altri; suo insomma, come il televisore, il messaggio e il viaggio premio.
L’attesa venne finalmente premiata, il testo si completò. Pro lesse a voce alta perché ormai era sia sfidante che spettatore.

“Complimenti! Per sapere se hai vinto chiama immediatamente questo numero.”


E per sapere se aveva vinto non si diede nemmeno il tempo di finire la frase che sfilò il telefono dal divano e compose rabbiosamente il numero.
Ormai era dentro un vortice: riconosceva l’assurdità del proprio comportamento, ma era come se non dipendesse più da lui. C’era dentro e doveva arrivare fino in fondo. Sapeva di aver già perso quella sfida folle e inverosimile come l’equilibrio che si ostinava a dimostrare, ma voleva subire una sconfitta totale, umiliante, una sconfitta che fosse anche una lezione per la sua parte da spettatore – almeno quella.
Il numero telefonico continuava a lampeggiare sul televideo mutando la curiosità in patologica ansia.
Due squilli e cadde la linea.

“Stupido telefono!”, la sua voce delicata si rivelò insicura e ansimante, in netto contrasto col fumo colorato che riempiva la stanza.


Odiò il telefono – perché avere qualcosa con cui prendersela lo faceva sentir meglio – e ricompose il numero. Questa volta non furono squilli né attese ma una voce femminile dolcissima, colorata e famigliare.

“Siamo spiacenti, il suo credito disponibile non è sufficiente per inoltrare la chiamata.”
“Ma se l’ho appena caricato?”, urlò Pro.
“Grazie!”
“Prego. Prego. Prego.”


Scagliò il cellulare contro il divano.

“Prego!”, ribadì alla sua parte da spettatore.


Aveva inesorabilmente perso. Da ogni angolazione, da ogni punto di vista, sotto ogni aspetto. Aveva perso in ogni modo in cui si possa perdere una sfida. Aveva perso, perché non gli venisse mai più voglia di sfidare quel misterioso equilibrio.

La fresca brezza del mattino si divertiva a giocare con i suoi capelli ancora umidi, dolce come una piuma, gli faceva il solletico sul collo e ora sul viso – dispettosa e ammaliante come sapeva – sgattaiolava dentro e fuori i polmoni colorando ogni cellula del suo corpo e poi giù, lungo la schiena – brividi – fino a sollevarlo per i fianchi e portarlo via, al di là della finestra, sopra le briciole, oltre i colloqui, trovando nella dolcezza l’unico rimedio per lenirgli le ferite. E ci pensò Pro, dalla prua della finestra aperta, di spiegare le braccia e volare sopra il mercato più grande di Torino, sopra quella piazza che gli riempiva lo sguardo, sopra quel luogo che figurava nei fossili d’ogni suo ricordo. Un mosaico di teloni: gialli, rossi, blu, verdi e bianchi – che proprio bianchi non erano – un’immensa tela incorniciata dai portici, una tela viva, ordita nell’andirivieni d’un pezzo di Torino; e nell’ammirare il dipinto, si divertiva a leggere le notizie del giorno nel movimento delle persone – come tanti frutti geneticamente controllati – li scrutava dall’alto della sua finestra invisibile, nascosta, come una specie di fantasma, e li scrutava finché la voglia di calarsi nel dipinto non diveniva irrequietezza spiegandogli le braccia al vento.
Affacciarsi a quella finestra era un viaggio che non si poteva vincere e forse nemmeno raccontare, ma era un viaggio realmente suo, un viaggio a cui era strettamente legato.
Si tolse la maglietta – fresca brezza del mattino sulla pelle – e temporeggiò qualche istante ancora davanti alla finestra spalancata. Chiuse gli occhi e sollevò il mento al cielo mentre un largo sorriso gl’impreziosì il volto.
Andò a cambiarsi.

Totalmente avvolto di poesia e immaginazione, per poco non uscì di casa dimenticando le chiavi sul mobile. Chiuse la porta e scese le scale contando i gradini – era di buon umore. Due piani più sotto incrociò il suo vicino di casa: un uomo sull’ottantina aggrappato al mancorrente, occhiali spessi, schiena ricurva sopra un pantalone marrone, bretelle nere e una camicia già sudata.

“Buongiorno”, sviolinò la voce di Pro.


Silenzio.
Quello proseguì per la sua direzione.

“Anche lei al mercato?”, Pro non amava darsi per vinto.


Ancora silenzio, ma questa volta ricevette in cambio uno sguardo serio e compunto.

Se l’era immaginato Pro, che da quand’era rimasto indietro con il pagamento del condominio, alcuni vicini sarebbero stati più lontani; ma lui, proprio lui no. Per anni l’aveva ascoltato con pazienza mentre raccontava e ripeteva gli stessi aneddoti su figli, paese e nipoti. Per anni l’aveva ascoltato finché gli occhiali spessi non s’appannavano di felicità. L’aveva aiutato a sollevare la spesa fin dentro casa, a sistemare la cantina, a ingrassare la catena della bici. Una sera l’aveva anche ospitato a cena – nonostante la camicia. Eppure, silenzio.

Dove mi starà guardando con quello sguardo?


Ma la sconfitta bruciava ancora, e Pro – o almeno la sua parte da spettatore – non volle rischiare un’altra risposta, un’altra sfida. Ebbe paura. Scese velocemente gli ultimi scalini – senza contarli – e aprì il grosso portone di legno: lo scatto dell’apertura riecheggiò nell’atrio, un suono che aveva il sapore di libertà.

Portone aperto.

11:30

Panchina sulla scuola

Osservazione

["Quanto può contare una parola detta col tono di questa voce?"]


Portone richiuso alle spalle: via al momento della verità.

Accadeva ogni sabato mattina, appena varcata la soglia del portone e durante tutto il tragitto verso scuola, che il giovane Pro lo scrutava, lo studiava attentamente, un po’ lo ammirava e un po’ lo implorava. A lui rivolgeva l’ultima preghiera del venerdì notte e il primo pensiero del sabato mattina – quando non si dava nemmeno il tempo di scendere dal letto a castello che già iniziava a immaginarlo, ad annusarlo, a spiarlo – finché poi non arrivava lì dov’era adesso, appena oltre la soglia del portone, e poteva finalmente sollevare gli occhi per guardarlo rispettosamente in faccia: il cielo.

La magia del sabato pomeriggio dipendeva dal tempo; una magia fatta di pochi ingredienti: cinque amici, un pallone, il prato verde e lui, quel cielo così blu. Una magia che si gustava dal mattino.
La sveglia non arrivava nemmeno al secondo trillo che il giovane Pro era già in cucina a sbranarsi la colazione: irrequieto, perché da lì non poteva far altro che immaginarselo, il cielo. Cercava di spiarlo tra le tapparelle, ma non poteva spalancarle perché avrebbe svegliato gli altri fratelli che dormivano in soggiorno; e nemmeno la finestra del bagno perché dava sull’androne delle scale. Allora, come un prigioniero, aveva affinato delle tattiche per sopravvivere fino alla soglia del portone: cercava d’indovinare il tempo misurando il livello di penombra nella stanza, l’intensità dei raggi che filtravano in cucina e la quantità di polvere che illuminavano. Aveva anche sviluppato particolari istinti che gli consentivano di cogliere il profumo del tempo nei raggi del sole, come un abitante della giungla: profumo di pioggia fresca, di brina notturna, nuvole o sole intenso.

Quella mattina il cielo era blu. L’aveva intuito durante la colazione, ma non pensava fosse così blu. Blu e basta. Blu profondo, eterno. Blu felicità.
Il giovane Pro rimase appiccicato col naso all’insù. Camminava verso scuola in quel tratto di strada che amava farsi a piedi un po’ per completare il risveglio e un po’ per ciondolare in solitudine. Passeggiava insaccato nei suoi jeans un po’ larghi – perché mamma sosteneva durassero di più – stretto nella sua maglietta blu dal collo che pungeva e trasportato dalle sue inseparabili scarpette da ginnastica. Camminava rimirando il blu del cielo, e quella mattina avrebbe voluto che la strada non finisse mai, per continuare a gustarsi l’attesa del sabato pomeriggio al parco, per rivedere i suoi gol, il volto sorridente dei suoi quattro amici, il profumo del prato. Un desiderio – realmente suo – che presto sarebbe divenuto realtà: alle quindici in punto, fermata del 77, parco Colletta.

Giunse davanti scuola ancora immerso nei suoi pensieri quando a stento riuscì a soffocare un urlo in gola: l’acido rumore di un clacson mandò in frantumi le sue bolle oniriche e per poco non gli fece scoppiare il cuore. Era il solito compagno d’ogni mattina.

“Ciao”, ansimò il giovane Pro.
BIP – BIP.


Rispose così quello, a modo suo, perché aveva sviluppato delle tecniche di sopravvivenza capaci di modulare il clacson del motorino come uno strumento a fiato. Rombò ancora qualche metro. Scese dal suo destriero a benzina, sfilò il casco, si aggiustò i capelli guardandosi nello specchietto e si appoggiò contro il sellino, gambe incrociate.

Il giovane Pro si accasciò sulla panchina dal lato opposto della strada. Sfilò lo zaino sistemandolo accanto a lui, incrociò le gambe perché i pantaloni larghi gli davano un po’ fastidio e con le mani in tasca continuò a guardare il suo compagno, il motorino e la scuola; li guardava insieme perché non sapeva distinguerli, li guardava con occhi piccoli e tondi.

Pochi istanti e arrivarono i rinforzi: un altro motorino, un altro motorino e un altro motorino ancora finché la parete della scuola non fu impreziosita da una dozzina di destrieri a benzina.

Dalla parte opposta della strada, il giovane Pro continuava a guardare con occhi piccoli e tondi, occhi che senza saperlo iniziarono a osservare, a isolare e distinguere gli elementi di quella composizione. Li osservava scendere dai motorini tutti allo stesso modo, coordinati, precisi: una coreografia. Li osservava muoversi insieme e li vide uniti, sicuri, protetti da una personalità collettiva: tutti come uno e uno come tutti. Dalla parte opposta della strada, il giovane Pro si chiese perché ogni mattina gli toccasse tutta quella strada a piedi; e si sentì stanco.

Anche il sabato poi! Invece di conservare le forze per il pomeriggio devo farmi tutta quella strada sotto il sole.


Scoprì di essere ancora seduto sulla panchina a fissare il cielo e si sentì improvvisamente un bambino.

Se avessi il motorino adesso non sarei qui, su questa stupida panchina, dal lato opposto della strada. E non dovrei salutare il mio compagno con questa voce.


E l’eco della sua voce sottile lo fece sentire più labile d’un bambino.

Quanto può contare una parola detta col tono di questa voce?


Dal lato opposto della strada, il giovane Pro s’era imbronciato – manco fosse già domenica. Rimase immobile com’era: faccia in su sotto un cielo enorme. Rimase così finché un raggio di sole non gli chiuse gli occhi; e fu allora – spente le luci sul palcoscenico di fronte – che i desideri del giovane Pro tornarono a sgattaiolare nel parco, tra il profumo d’erba, il vento e un verde immenso. Fu allora che tornò al centro del mondo fatto su misura per lui, un mondo che si era ritagliato da quello reale scartando tutto ciò che non serviva alle sue esigenze; e in quel mondo tornò a frugare tra desideri realmente suoi perché era lì in mezzo che si nascondeva la felicità.

Scollò gli occhi dal cielo e vide un altro compagno che si stava avvicinando alla sua panchina. Si schiarì immediatamente la voce.

“Ciao”, esordì con decisione un rinato giovane Pro.


Ma mentre stava per ricambiare, il suo vicino di banco venne quasi strattonato per un braccio.

“Hey, ti aspettavo all’angolo...”, era il compagno d’un’altra classe con la voce più adulta di entrambi.
“Scusa, ho fatto tardi.”
“Vabbè, hai visto?”, mentre con la testa s’indicò un piede leggermente sollevato da terra.

Come se una mano più alta avesse tagliato i fili che li sostenevano, gli sguardi del giovane Pro e del suo vicino di banco caddero all’istante sugli stivali dell’ultimo arrivato.

“Belli! Quando li hai presi?”, s’informò il vicino.
“Ieri, erano appena arrivati in negozio.”
“Alza bene, fa vedere...”

Bastarono pochi scambi perché i due si rivelassero perfettamente sincronizzati. Fu questione d’un attimo – lo stesso che può coprire un cielo d’estate – perché iniziassero ad adorare il poster con cui avevano coperto gli specchi delle loro camere. E di quel poster, uguale per entrambi, iniziarono a discutere: dei vestiti da indossare per essere simili a lui, del linguaggio da assimilare, la postura da mantenere, la camminata, i desideri – perché anche i desideri dovevano esser scelti dal catalogo del poster. Pochi scambi e i due si scoprirono parte d’un gruppo più ampio.

Il giovane Pro trascinò lo sguardo dagli stivali dell’ultimo arrivato alle scarpe del suo vicino di banco: quasi identiche, di certo niente a che vedere con le sue inseparabili scarpette da ginnastica. Allora passò ai jeans, e anche quelli erano larghi, molto più larghi dei suoi, tanto larghi che le tasche arrivavano al ginocchio. Ma era un largo che mamma non avrebbe mai approvato. Erano di un largo che il suo compagno doveva tracciare un semicerchio ad ogni passo, e nonostante la cintura, gli usciva comunque un pezzo di mutande con una firma sull’elastico.
Lo sguardo del giovane Pro continuò a correre su abili binari che lo condussero di fronte a uno specchio dove, per la prima volta, fu costretto a confrontare la sua immagine riflessa con quella degli altri poster viventi – un netto contrasto. Per la prima volta, il giovane Pro si vergognò di com’era.

“Oh, hai visto chi c’è là?”, con uno slancio, l’ultimo arrivato indicò due ragazze appollaiate sulla panchina più avanti.
“Io ho il cellulare della bionda!”, replicò il vicino con modesto orgoglio.
“Scrivile di farsi trovare qui all’uscita.”
“Ok. Dove le portiamo?”

L’abbigliamento lasciò improvvisamente il palco ai luoghi del poster: i due iniziarono un’accurata disamina delle possibili collocazioni adatte a un sabato pomeriggio da raccontare – luoghi dov’è scritto che ci si diverte – e armati di cellulare, studiarono un piano per portare a compimento l’ennesima conquista.

Accasciato sulla panchina, il giovane Pro era inerme. Subiva i colpi senza opporre alcuna resistenza, come un pugile prossimo al tappeto. Ogni parola proveniente dal nulla dei due compagni, scatenava in lui una valanga d’altri quesiti: se anche quell’immenso cielo blu gli avesse donato i mezzi, lui dove l’avrebbe mai portata una ragazza il sabato pomeriggio?

Alla Colletta? E come gliela descrivo la Colletta? C’è un prato. E poi come la porterei una ragazza? Con la mia bici? Con il 77? Speriamo che abiti vicino alla fermata...


Proprio di sabato mattina, proprio sotto un cielo blu oceano, proprio allora, per la prima volta, il giovane Pro pensò alla Colletta senza provare alcuna gioia in cuore. Improvvisamente tutta la felicità che il pensiero di quel luogo sapeva sprigionare era divenuta inaccessibile. Il viaggio attraverso quei binari aveva esteso i confini del suo piccolo mondo verso zone ignote, rendendolo enorme e immenso. Si sentì tremendamente smarrito. Ogni certezza crollò sotto i colpi delle parole e di quelle immagini. Non aveva chiesto a nessuno di stanarlo dal suo piccolo mondo su misura, eppure accadde, perché nessun altro poteva occupare il seggiolino con il suo nome nella grande giostra.

Suonò la campana delle otto e un brusio generale spinse i ragazzi verso l’ingresso della scuola. Il giovane Pro si alzò a fatica dalla panchina simulando di cercare qualcosa nello zaino. Osservò i suoi compagni entrare a scuola – uno dopo l’altro. Osservò con attenzione così tante ciambelle da accorgersi che lui era venuto senza buco. Osservò finché non chiusero le porte e tutto intorno venne un gran silenzio. Si lasciò crollare sulla panchina. Fu un boato assordante, ma nessuno se ne accorse.

12:30

Panchina sul fiume

Coscienza

["quando inizi a rimpiangere qualcosa allora sei diventato adulto"]


Portone richiuso alle spalle.

Pochi passi e occupò la panchina sotto gli alberi del viale: decise di rimandare l’ingresso al mercato nell’attesa che il lavoro lo chiamasse. Si spalmò sullo schienale ancora fresco di mattina, chiuse gli occhi e su quella panchina – cullato dal fiume che scorreva alle spalle, vezzeggiato dai raggi di un tiepido sole e distratto dal suono del vento tra le foglie – Pro fu ottenebrato dal pensiero del lavoro ancora pochi istanti – gli stessi che possono schiarire un cielo d’estate – prima di sprofondare nella poesia che lo circondava.

Sul lungo Dora transitò un bus 77 – il frastuono del motore riempì l’aria – un vecchio modello già in pensione. Pro spalancò gli occhi e lo seguì come un aquilone. Lo seguì fino ai tempi della Colletta, quando partivano da casa in bici e aspettavano il loro quinto amico al fondo del lungo Dora, dove quello stesso pullman faceva fermata. Arrivavano alle quindici in punto, mai un attimo dopo, e mentre si raccontavano di un mondo dolcemente surrogato, aspettavano, scrutavano, fremevano finché all’orizzonte non si materializzava la medesima sagoma di quel vecchio 77 scatenando in loro tutta una festa di complesse emozioni. Quel bus trasportava il quinto e ultimo ingranaggio di un mistico motore.

Ora aveva la stessa sagoma dentro gli occhi e il medesimo fiume alle spalle, ma un profumo totalmente diverso intorno a sé. Aveva perduto il biglietto vincente della lotteria, di quella lotteria invisibile la cui estrazione avviene soltanto quando non ci credi più, quando hai buttato il biglietto pensando che fosse carta straccia. La voragine al centro del suo cuore fu inondata da una cascata di nostalgia.

Un’estrazione che avviene sempre in ritardo. Perché quando inizi a rimpiangere qualcosa allora sei diventato adulto.
Che bel modo di spiegartelo però…


Se la raccontò così, Pro. E forse la colpa non era nemmeno sua, forse, prima o dopo, chiunque arriva al medesimo finale. Ma dentro quella voragine colma di nostalgia, sentì la certezza d’aver perduto le uniche cose realmente sue, le poche interamente scelte da se stesso. Rimpianse le tonnellate di vita, i pomeriggi, i suoi quattro amici e la ciambella senza buco che era. Rimpianse quella banale formula così difficile da replicare: i suoi desideri presi alla stato puro e liberi da ogni condizionamento – effetti speciali, luci del centro, luoghi da raccontare; e quel parco, così com’era. Una formula che diede vita a frutti strani, storpi – frutti per cui nessuno avrebbe speso due lire – ma frutti, quelli, il cui sapore era niente meno che felicità. Poi un giorno gli dissero che il suo biglietto non valeva niente, gli aprirono gli occhi verso frutti ben più grossi, colorati, luccicanti – frutti appesi a fili invisibili, e lui abboccò con tutta la forza che aveva in corpo: stracciò il biglietto e appiccicò un poster allo specchio. Iniziò a rispettare le norme stabilite e a compilare le pratiche necessarie per scendere tra le acque del continente sommerso, quella vasta popolazione d’individui omologati, spogliati della propria personalità e rivestiti d’una comune – burattini semplici da controllare e ottimi per scaldare – variopinte farfalle mutate in larve identiche.

Ed eccomi qui, combustibile pieno di voragini. Spero vi scaldiate.


Si alzò dalla panchina cercando l’ora nel movimento dei passanti – potevano esser trascorsi anni come attimi – ma non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi che passò proprio lì davanti: la bizzarra Signora stava andando al bar. Dodici e quaranta. La osservò con la solita attenzione.

Incedeva fiera nel suo portamento: schiena ritta e mento all’insù. Misurava la strada verso il bar inanellando passi identici e precisi, come una marcia militare. Occhiali da sole, vivaci gioielli, borsa pennellata insieme alle scarpe e rigorosi abiti da cerimonia – perché nel suo giorno era sempre domenica. L’acconciatura dei capelli biondo platino era rintracciabile su qualche rivista da pochi euro in edicola, e il trucco – degno di una giovane sposa sulla ventina – impreziosiva il volto tirato di una bella signora sulla settantina. E fu proprio l’espressione di quel volto, adombrato da un largo cappello, che attirò l’attenzione di Pro la prima volta che la vide passare: l’espressione ansiosa e trepidante di uno studente pochi attimi prima dell’esame. L’espressione della fragorosa lotta contro l’incedere del tempo – una battaglia così folle da sottrarle ogni risorsa e precluderle ogni altra attività. Pro continuò a seguirla con lo sguardo. Ancora pochi passi e avrebbe varcato la soglia del bar, sarebbe salita sul palcoscenico per essere giudicata dagli sguardi impervi e sagaci degli astanti. Ancora pochi passi e l’avrebbe osservata spalancare la bocca nell’atto di ridere, chiudere gli occhi ammiccando per il solletico d’un complimento o lasciarsi seguire dallo sguardo bavoso di qualche vecchio annoiato – e allora sarebbe uscita dall’esame con il trenta in volto e una lode ai suoi sforzi. O forse, ancora pochi passi e Pro avrebbe percepito il suo terrore mente i vecchi giudici non le concedevano lo straccio d’una certezza, nemmeno uno sguardo, un cenno, un sorriso – e allora sarebbe uscita con il volto della sconfitta e la data del prossimo esame tra le sue poche certezze.

Biglietto vincente in cambio d’un poster, perché?
Ci fanno credere malati per intubarci con flebo di spot e farci ingrassare a loro piacimento. Eppure basterebbe trovare la forza per alzarsi da questo dannato letto, basterebbe non credere alle leggende che raccontano per tenerci in catene. Uscire dal continente sarebbe morte? Ma che differenza c’è tra la morte e questa sopravvivenza forzata?

“Morire per i frutti della felicità, ne vale la pena.”, parlava da solo Pro, lo faceva spesso perché gli sembrava che altri lo volessero ascoltare.


Decise di voltare le spalle alla panchina, al bar dell’esame e alla bizzarra Signora: quella mattina non l’avrebbe seguita nel suo perverso tragitto.
Si appoggiò al muro di sponda del fiume e annusò la freschezza dell’acqua. Ammirò le dita di un albero sulla pelle del fiume, mentre il sole accendeva milioni di perle tra le onde della corrente – i suoi pensieri stavano correndo veloci, quella mattina avevano imboccato sentieri vietati, sentieri che non aveva mai osato. Già altre volte s’era trovato di fronte alle stesse domande – è vero – ma poi il buio che c’era oltre l’aveva sempre bloccato, come un bambino nel cuore della notte. Quella mattina, invece, si diede anche una risposta che da tempo latitava nelle pieghe dei suoi pensieri. Quella mattina, per la prima volta, osò addentrarsi nel buio.

Sentì dei singhiozzi – ebbe paura. Sgranò gli occhi e ascoltò con più attenzione. Singhiozzi sottili, delicati, quasi miagolii. Provenivano dalla panchina alle sue spalle. Pro cercò di girarsi senza dar nell’occhio, più per rispetto della situazione che per altro: un vestito elegante e un ampio cappello – la bizzarra Signora in lacrime, proprio lì, sulla sua panchina. Si rigirò di scatto verso il fiume.

La bizzarra signora qui dietro – provò un immediato senso di colpa per non averla accompagnata all’esame.
Il suo ampio cappello così vicino – era colpevole.
In lacrime?


Tornò a guardare le perle sull’acqua del fiume chiedendosi se la bizzarra Signora avesse udito i suoi pensieri – il continente sommerso, la panchina, l’esame – e per la prima volta, il buio che c’era oltre quelle domande gli fece meno paura, comunque meno delle lacrime.

A chi abbiamo sacrificato la nostra metà sincera? I nostri desideri nascosti, forse ridicoli, poveri: ma realmente nostri; sull’altare di cosa?


Forse la bizzarra Signora aveva trovato una risposta in quelle lacrime. Si girò nuovamente verso di lei ma trovò la panchina vuota. Se n’era andata, al suo posto un pacco di fazzolettini. Pro lasciò il muretto e iniziò a guardarsi intorno cercando un largo cappello – sul marciapiedi, oltre la strada, verso il bar – eccola: al di là degli alberi, gli serviva un alibi. Prese il pacco di fazzolettini sulla panchina.stenza, come un pugile prossimo al tappeto. Ogni parola proveniente dal nulla dei due compagni, scatenava in lui una valanga d’altri quesiti: se anche quell’immenso cielo blu gli avesse donato i mezzi, lui dove l’avrebbe mai portata una ragazza il sabato pomeriggio?

“Signora? Mi scusi signora, avete dimenticato questi”, silenzio.
“Signora?”, silenzio. “Mi sentite?”, ancora silenzio.


L’ombra della bizzarra Signora continuava ad allungarsi. Pro diede un ultimo sguardo al pacco di fazzolettini e se lo mise in tasca: durante quel suo giorno sarebbero nuovamente stati utili.

13:30

Al mercato

Ribellione

["perché aveva voglia di scegliere"]


Disorientato e confuso, Pro rimase in piedi accanto alla sua panchina. Gli era già successo di non riuscire a staccarsi dai suoi pensieri, e qualunque altra cosa facesse finiva sempre per tornare lì, lentamente o più veloce, ma comunque lì, come un elastico che lo riportasse indietro; ma questa volta era diverso. Questa volta i suoi pensieri non tornavano al punto di partenza seguendo il cerchio già tracciato, non si accontentavano delle solite risposte sedative. Questa volta i suoi pensieri erano usciti dal perimetro di sicurezza sgattaiolando ovunque – incontrollati – e avevano imboccato sentieri finora vietati, bui, sconosciuti.
Disorientato e confuso, Pro s’incamminò verso il mercato.

Quella piazza trasudava l’importanza che il mestiere di far la spesa richiede: piazza dei Compratori. Visi determinati e compunti, visi provati, distrutti dalla battaglia di prezzi, contrattazioni e rilanci. Visi incollati sopra corpi scomposti, spossati, corpi reduci da miriadi di spinte e strattoni contro una folla di gomma, in lotta per mantenere la posizione. Corpi schiacciati dal peso degli acquisti, dalla ricerca di prodotti come pepite e un intero mercato da setacciare. Corpi trascinati come borse a due ruote tra bancarelle, buche e scalini. Visi inebetiti dalle urla dei venditori, gonfi come polmoni senza ossigeno, giù, nel metro quadro di spazio vitale. Visi e corpi: sotto il sole.

Come tutti i grandi luoghi piazza dei Compratori aveva un pregio e un difetto. Una volontà contagiosa: questo era il suo pregio. Tu arrivavi lì svogliato, stanco, appeso al filo di chissà quale pensiero e poi vedevi il volto soddisfatto dei compratori malconci ma superstiti – eroi di famiglia; vedevi le bancarelle e tutta quella mercanzia, vedevi i prezzi, i colori, i profumi, i gusti: non facevi altro, semplicemente vedevi – perché eri costretto a vedere – e allora venivi contagiato dalla volontà, dalla voglia di fare, di vincere almeno una battaglia nella guerra d’ogni giorno.
Ma non potevi nasconderti, questo era il suo difetto. Non c’erano pareti d’alcuna finzione che potessero mascherare gli ultimi arrivati. Il volto dei novelli si tingeva d’un’incredula curiosità e attirava i venditori come una campana per il pasto: chiunque passava da piazza dei Compratori veniva fregato almeno una volta, perché glielo si leggeva in faccia quand’era nuovo.

Pro era un veterano. In quella mattina d’un freddo autunno passeggiava per il Borgo Dora con le mani in tasca, come uno che sa. Passeggiava tra colori e leggende che si schiudevano innanzi come fiori d’un fascino senza eguali. Attraversò la piazza e fece il giro del mondo: si mischiò al cocktail di culture così variegato d’avere il gusto unico e rarissimo di avventura; volò su profumi che aleggiavano nell’aria, intorno alle botteghe etniche, alla torrefazione Roma, ai ristoranti arabi, ai bazar – mangiò ogni fragranza dell’ora di pranzo e, sazio d’aromi, s’infilò nelle strette vie interne. Non perdeva l’occasione di spiare tra le pupille d’altri popoli, come viaggi fulminei, andata e ritorno immediati. Catturava sguardi tirandoseli dietro come elastici, da un paio di occhi all’altro, da un’immagine all’altra, da un popolo all’altro: danzava Pro, al ritmo di suoni misteriosi, di lingue lontane, calde, di tamburi invisibili; e danzando arrivò fino alle Porte Palatine. Si fermò un attimo ancora e finalmente si decise: indossò il costume da compratore, gli diede un ultimo sguardo e vi si tuffò dentro: il mercato della frutta.

Qualunque altra cosa facesse finiva per tornare sempre lì: i pensieri incontrollati – quella mattina decise che non avrebbe comprato dalla solita bancarella, in quella mattina d’un freddo autunno ne avrebbe scelta un’altra, una bancarella sua, selezionata con i propri sensi – intorpiditi o meno che fossero – e capace di soddisfare gusti e desideri realmente suoi.
Iniziò a galleggiare intorno alle bancarelle con le mani in tasca e il respiro denso. Galleggiava attirato dai frutti e sospinto dal vento, con la calma intorno agli occhi, e i suoi occhi erano la calma. Galleggiò come un’ape finché i suoi sensi non lo condussero di fronte una bancarella defilata. Si fermò a osservarla. Aveva i tendoni semplici, fatti in casa. Tendoni verdi che si riflettevano nel marrone dei suoi occhi: erba e terra, speranza e concretezza. Sotto quei tendoni non c’era una gran varietà di frutta – le cassette erano illuminate da un raggio di tiepido sole – ma quella frutta riuscì a saziare la sua vista e i suoi desideri. Furono soprattutto le mele, un po’ piccole a guardarle bene, ma gialle con sfumature rosse, gialle che riempivano il vento di profumo. Si avvicinò alla bancarella tirando fuori le mani dalle tasche, ma non fece nemmeno due passi che una spallata lo spinse mezzo balzo più in là. Si girò di scatto: due spalle e una schiena.

“Ehi!”, ruggì Pro.


Niente scuse. Anzi, quello si girò con uno sguardo di compassione e pietà verso il marrone dei suoi occhi e il verde della bancarella. Pro lo guardò senza capire. Si girò intorno cercando una risposta e incrociò lo sguardo di un altro compratore che lo stava fissando con la stessa espressione: compassione e pietà per lui e la bancarella. Fu nuovamente preda dei suoi pensieri inoltrati nel buio, ma anziché paura e confusione, questa volta provò un senso di rabbia e ribellione: girò le spalle agli sguardi estranei e si dedicò nuovamente alla sua bancarella.

Le mele poteva scegliere da solo. Si pagavano a peso. Prese un cestino tra quelli di lato e si accinse a soddisfare i propri gusti con un sorriso in volto – un sorriso nell’alternanza di apparizioni e scomparse sempre più stretto, ma comunque un autentico sorriso. Non fece in tempo a cogliere la prima mela che uno spintone ancora più violento lo spostò dalla bancarella. Si girò con uno scatto repentino – come se lo stesse aspettando – ma non ebbe nemmeno il tempo di fiatare che ricevette un’altra spallata in pieno volto, tra naso e occhi, quelli suoi: enormi. Raccolse il viso tra le mani per consolare il dolore quando un’ultima, definitiva spallata lo scagliò in mezzo alla folla.

Non capì più nulla Pro. Lanciato in mezzo a quella fiumana di compratori, fu costretto a mettere da parte le sue ragioni e a lottare semplicemente per rimanere in piedi tra una spinta e l’altra – il naso gli bruciava – cercava di camminare allo stesso passo degli altri compratori per non cadere sotto i loro piedi – il naso gli bruciava e un conato di rabbia gli salì in gola.

“Mi scusi”, cercò di uscire dalla folla di spalle.
“Permesso, M-I-S-C-U-S-I”


Uno colpo in pieno volto lo rimise immediatamente in fila. Barcollò come un birillo e lasciò cadere il cesto delle scelte che si era portato dietro. Si aggrappò alle spalle del compratore davanti e riprese a camminare velocemente. Di nuovo i suoi pensieri – il naso sanguinava – ebbe paura, ricordò le lacrime della bizzarra Signora e controllò d’avere i fazzoletti in tasca.
Non sapeva dove stesse andando ma ci andava, anzi, finché fosse rimasto lì dentro non serviva nemmeno chiederselo. Finché fosse rimasto in mezzo a quella fiumana di compratori nessuno glielo avrebbe mai domandato, e nessuno lo avrebbe più guardato con pietà. Pro iniziò a rispettare ritmi e tempi della folla e a camminare con le proprie gambe. Ben presto si accorse che lì in mezzo non faceva nemmeno così freddo, e senza il cesto per le scelte aveva spazio a sufficienza anche per respirare. La paura si calmò.

Aveva camminato non sapeva nemmeno quanto in compagnia delle spalle prima di sentire quelle voci lontane, suoni indistinti d’intensità crescente, cantilene che prendevano forma con l’incedere d’ogni passo. Aveva camminato non sapeva nemmeno quanto prima d’udire il canto delle sirene. Alzò gli occhi al cielo e venne accecato dalla luce di un neon – temette per il suo naso ma era una luce priva di calore, buona soltanto per abbagliare – si stropicciò i grandi occhi e rialzò lo sguardo con maggiore prudenza. Vide una lunga serie di neon colorati, niente azzurro né sole: ogni altra fonte di luce era accuratamente tenuta fuori da quell’affare. L’esercito di spalle aveva rotto le righe: liberi di camminare da soli.

“QUI VENITE QUI”
   “VENITE SOLO QUI”
       “SIAMO QUI VENITE”


Pro capì d’essere arrivato. Non sapeva dove, ma riuscì finalmente a decifrare il canto delle sirene e le bancarelle da cui proveniva: bancarelle simili, enormi, mura di bancarelle con ampie tettoie colorate e neon lampeggianti. La merce delle grandi bancarelle era disposta in lunghe torri ordinate e c’era tutto quello che si potesse immaginare, e ancora di più. Pro rimase frastornato. Quelle lunghe torri accesero in lui una gran voglia di comprare, di comprare, di comprare da ogni torre un po’, di comprare tutto perché in quel momento sentì di non aver mai avuto nulla. Venne rapito soprattutto dalle mele: enormi e lucide, come le tettoie, le luci, le torri – “DI QUA” – si voltò verso un altro canto, un'altra bancarella – “SIAMO QUI” – altre mele enormi, un’altra bancarella identica – allungò una mano cercando un cesto ma gli rifilarono un sacchetto di mele già prezzato – buttò i soldi sopra il bancone – “VENITE DI QUI”, altre voci – tutto intorno iniziò a girare vorticosamente – cercò l’uscita appoggiandosi alle bancarelle – “QUI” – si buttò fuori dal mercato come si esce da una vasca bollente. Sbucò sul corso Regina talmente frastornato che un tram gli passò a pochi centimetri dal naso.

Barcollò come un ubriaco verso via Milano. Imboccò il marciapiedi quasi correndo – un passo dopo l’altro, velocemente – con lo stesso ritmo del suo cuore. Camminava senza una meta precisa, cercando di smaltire la sbornia di neon, e continuò a vagare in quello stato d’incoscienza finché una vetrina dal volto familiare non lo bloccò: l’enoteca Damarco, la sua bottega preferita. Guardò la vetrina mentre il cuore iniziava a calmarsi e i sensi a ritornargli in corpo.

Ispezionare ogni bottiglia di quel luogo era uno dei suoi momenti preferiti. Esaminava ogni vino pregustandone il profumo, l’aroma, la consistenza. E in quella mattina d’un freddo autunno non arrivò nemmeno a metà – perché aveva voglia di scegliere – che scelse una bottiglia da Moncalvo, una Barbera. Si avvicinò alla porta della bottega preparando i soldi, com’era solito fare. Infilò la mano nella tasca interna della sua giacca ma la trovò vuota – un brivido gli percosse la schiena. Si toccò subito la tasca posteriore dei pantaloni – che magari nella confusione del mercato – ma ancora nulla. Il cuore tornò a correre. Tastò ogni tasca, ogni indumento, ogni punto del suo corpo, ma in quella mattina d’un freddo autunno, il portafogli non venne fuori. Si strappò dall’enoteca come dal letto una gelida mattina d’inverno.

Scivolò verso il Borgo Dora e si lasciò cadere sullo scalino del primo portone che incontrò – ancora i suoi pensieri incontrollati – buttò la testa all’indietro come ai tempi della scuola, quando lo zaino, uno scalino e un portone erano sufficienti per trascorrere un pomeriggio intero. Guardò in alto e trovò il ricordo dei vecchi amici, qualche straccio in cielo e nessuna voglia di correre dietro un pallone.
Furono soprattutto le mele a rianimarlo. Aprì il sacchetto e ne prese una caso. Diede un morso di rabbia, ma non fu neanche il tempo di chiudere la bocca che si staccò schifato: marcia. Lucida e completamente marcia. Strinse le dita cercando di bucarla e la lanciò verso la strada senza curarsi dei passanti. Ne prese subito un’altra, l’azzannò per farle male e la trovò nuovamente marcia. Si alzò in piedi guardando dentro il sacchetto pieno di luccicante marciume – la rabbia gli gonfiava il petto – fissò i passanti sussurrando a denti stretti.

“Come se nessuno di voi sapesse nulla di tutto questo.
Come se nessuno avesse visto il mio portafogli.
E le spallate? E il mio cesto? Dov’è il cesto per le mie scelte? Chi l’ha preso?”


Buttò il sacchetto e se ne andò verso casa, pronto a lasciarsi consumare dal pranzo.

14:30

Pranzo

Rabbia

["in realtà, della sua gran voglia di parlare, non importava niente che a lui"]


Richiuse la porta con due giri di chiave.

Prigioniero dei miei stessi mezzi.


Era stanco, stanco e tremendamente avvilito: violentato dal suo stesso giorno. La cucina, pur sempre desolata, gli parve un’oasi familiare tra il caos dei suoi pensieri. Serrò le tapparelle del salotto e si accasciò in braccio alla poltrona – buio e immobile. La rabbia continuava a battergli in petto, doveva trovare un colpevole, perché avere qualcuno con cui prendersela lo faceva sentir meglio.

Chi? I compratori?


Passò in rassegna i loro sguardi di pietà e compassione, i loro sguardi per farlo sentire strano, povero, lontano dal meglio del mercato, e capì – solo allora – ch’erano vittime più di lui.
La rabbia continuava a pulsare.

Le bancarelle?


Provò a immaginarsi i padroni dei neon a intermittenza, provò a ricostruire i loro discorsi e a odiarli; provò a chiedersi se lui avrebbe mai osato tanta violenza in cambio di smisurati guadagni, in cambio di un giorno più bello da raccontare, in cambio del proprio nome sul neon: la risposta assolse i padroni e gli diede un’altra chiave per spiegarsi le guerre.
La rabbia continuava a pulsare.

Il ladro?


S’immaginò che il ladro di portafogli fosse lì, davanti a lui. Tracciò il contorno dei suoi occhi per averne altri da fissare – almeno i suoi, quelli di un ladro – ma convenne che il mestiere di quegl’occhi era lo stesso delle grandi bancarelle.
Pro concluse, solo allora, che l’unica persona con cui potesse prendersela era lui: nessun altro.
La rabbia continuava a pulsare.

“E adesso?”


Ma l’ombra di se stesso non rispose. Nessuno rispose, e benché non ce ne fosse bisogno, Pro ebbe l’ennesima conferma che in realtà, della sua gran voglia di parlare, non importava niente che a lui.

C’era già passato da piccolo, ogni pomeriggio e ogni torpida giornata d’estate, quando i suoi genitori lavoravano – per lui – e quel pupazzo avrebbe dovuto fargli compagnia fino a sera. Ma il piccolo Pro non si faceva prendere in giro tanto facilmente, e quel pezzo di stoffa lo odiava, lo detestava, lo picchiava tanto che un giorno, tirandolo con tutta la forza che aveva, gli staccò il braccio destro. Quel pomeriggio pianse amaramente. Conservò il braccio e promise al suo pupazzo che da quel momento sarebbe stato il suo migliore amico.

C’era già passato, ogni sera, quando mamma tornava in casa e lui aveva un gran voglia di parlare, di raccontarle che la storia del lavoro non gli piaceva affatto; sì, lei gli avrebbe nuovamente risposto che lo faceva per lui, ma lui proprio non capiva, anzi, si sentiva un po’ in colpa e odiava tutti quei giocattoli – tutti tranne il suo migliore amico. Ma poi mamma era così bello averla lì che il piccolo Pro finiva per non dirle niente perché niente potesse renderla triste.
Forse il babbo l’avrebbe capito, che nemmeno lui parlava molto, ma il piccolo Pro si vergognava. Si vergognava di lui, si vergognava di guardarlo dentro quegli occhi sempre un po’ severi, scuri, stanchi; si vergognava di chiedere. Così la sera si metteva in un angolo dell’ingresso, aspettando che il babbo aprisse la porta, e sperava che lo sollevasse lassù, in alto, con tutta la barba che gli pungeva la faccia.

Poi un giorno crebbe e arrivò il momento in cui riempiendosi i polmoni d’orgoglio pronunciò un tonante Sì! di fronte l’altare, un Sì! ch’era una conferma, un trofeo, un sigillo a tutte le promesse in cui s’era trasformato; e tra tutte, ce n’era una – segreta – su cui si fondava la sua affermazione: non sarebbe mai più rimasto solo. E allora iniziarono a lavorare duramente per una casa dove incontrarsi nelle stanche ceneri d’ogni giornata, finché le ceneri stesse divennero straordinari per concedersi un pezzo di spiaggia in cui riscoprirsi felicemente estranei. Comprarono anche una poltrona dove fare l’amore sarebbe stato più bello, ma ben presto divenne il suo letto nelle fredde notti in cui rientrava alticcio.

Saltò da quella stessa poltrona e inforcò le ciabatte come se dovesse strapparle. Era completamente solo in un angolo dell’ingresso, e il suo migliore amico un pupazzo senza braccio. Sua moglie stava lavorando – anche per lui – e il babbo, ora che il coraggio l’avrebbe anche trovato, non sarebbe mai più rientrato per pungerlo con la sua barba.

Lavorare per vivere.
Che bel vivere.


Se c’era una persona a cui Pro doveva la vita, questa era la Poesia. Lui aveva il pregio di cercarla ovunque, ma lei aveva il grande merito di sapersi nascondere nelle piccole cose, quelle semplici, impensabili, così banali da richiedere del tempo per capirlo. Un merito ch’era poi anche la sua prima difesa, perché in tal modo sapeva di concedersi soltanto a chi le dedicasse sufficienti attenzioni e una sensibilità capace di varcare la dimensione delle grandi apparenze. E malgrado tutto, Pro ne era capace.

Aprì il frigorifero cercando Poesia nel piacere di prepararsi un buon pranzo. Tirò la maniglia senza avere idea di cosa ci fosse dentro – se non il freddo che sentiva nel cuore – e trovò subito la risposta: un mezzo limone raggrinzito, un residuo di formaggio da troppo tempo nella stessa posizione e due porzioni di carne, in scatola.

“Perché abbiamo comprato un frigo così maledettamente enorme?”


Richiuse lo sportello come aveva chiuso le tapparelle, il sole e tutto il resto.

15:30

Primo pomeriggio

Crisi

["cercò di abbracciare il muro come se fosse una persona vera, perché aveva una gran voglia di abbracciare"]


Ancora gli stessi pensieri. Si lanciò verso la finestra colmo di rabbia e voglia di vendetta – tagliò in due il soggiorno, sfrecciò davanti alla poltrona del pianto, spinse le tapparelle contro i piccioni sul davanzale e rimase immobile, impietrito: del mercato non v’era più traccia. Al suo posto qualche rimasuglio, perlopiù cumuli d’immondizia, e tanta, tanta desolazione. Un’idea da troppo tempo in cima ai suoi sospetti per non rivelarsi in maniera così brutale: quel mercato sapeva scomparire alla vista di occhi disillusi. Ma c’era di più. Quel mercato sapeva scomparire pur continuando a esistere, come un’ombra senza corpo – inevitabile perché impossibile da individuare. Si dileguava fondendosi con ogni oggetto che gli apparteneva, così che bastasse guardare l’oggetto o il suo possessore per osservare in realtà la sua invisibile presenza. Quel mercato era trama e ordito di ogni vestito ma nessun tessuto in sé.

Una trappola per topi gli scattò dentro lo stomaco. Richiuse le tapparelle – buio – richiuse le palpebre – buio – e si lasciò cadere nella poltrona del pianto. Abbandonò la testa all’indietro. Con un lungo sospiro cercò di buttare fuori la rabbia come se fosse aria, come se tutto non fosse improvvisamente divenuto chiaro, come se i suoi pensieri, in quella mattina d’un freddo autunno, non avessero scavalcato il recinto delle domande scomode per imboccare sentieri a lungo proibiti. Provò a far finta di nulla, ma il mercato era sparito, e quello era un segnale che non poteva mentire.

Aprì l’armadio come una cassaforte e sollevò il disco ch’era sempre stato la sua via di fuga. Non era un semplice album, quella era musica, la musica: note e parole che lo accompagnavano dai tempi della scuola, a volte nelle orecchie, tutto il resto nel cuore. Accese lo stereo e si sdraiò sul pavimento in mezzo alle due casse. Sopra di lui il bianco del soffitto. In pochi attimi un paesaggio di parole dipinte sul pentagramma iniziò a popolare la stanza, un paesaggio di cui s’era innamorato crescendo, quando esperienza dopo esperienza, la vita scriveva il manuale per comprenderlo. E lui aveva fiduciosamente atteso che l’incedere del suo giorno svelasse il senso delle poche parole ancora oscure: quella frase finì dritta in fondo ai suoi sensi. Mai come allora l’aveva compresa.

“Don't be surprised, when a crack in the ice - Appears under your feet - You slip out of your depth and out of your mind”, sussurrò a tono.


E mentre galleggiava tra la retorica e il profumo di quelle parole, un suono estraneo s’infiltrò nel paesaggio deturpandone la Poesia, un suono storpio, acido: il telefono di casa. Cercò d’ignorarlo, ma il paesaggio era ormai svanito. Si alzò.

“Si?”, domandò con voce stanca.
Silenzio, cinque secondi.

“Scusi, devo aver sbagliato numero”.
TU – TU – TU


Lasciò cadere la cornetta contro il mobile – il suono lampeggiante scandiva il battito del suo cuore sempre più rabbioso, sempre più gonfio di tristezza. Si rimise in ascolto tra le due casse e attese diversi istanti, ma le frequenze del suo animo erano ormai nevrotiche. La Poesia inerpicata tra le note si dimostrò inaccessibile, ritirata in sé come una lumaca nel guscio; e lui aveva voglia d’invocarla, d’agognarla, di supplicarla a gran voce: ella non usciva, troppo spaventata dalla frenesia del contesto.
Si rassegnò. Spense lo stereo e tornò a sprofondare nella poltrona del pianto. Non c’era nulla che potesse curare il suo animo tradito.

Raccolse il telecomando da terra e senza nemmeno pensarci diede voce al televisore: un gesto semplice e naturale come bere un bicchier d’acqua.

“Cari telespettatori, buongiorno!”, una signorina sorridente gli diede il benvenuto.

Cambiò canale. Questa volta un gratuito messaggio pubblicitario gli mostrava come ottenere successi sentimentali e lavorativi: un nuovo profumo migliore del precedente – e quindi ormai vecchio – modello.
Le frequenze di quei messaggi erano le stesse che spaventarono la Poesia, le stesse del telefono, le stesse della folla al mercato: per raggiungerle non serviva volare, bastava mettersi comodi. E Pro si era accomodato dentro la sua poltrona come se fosse sdraiato sul bagnasciuga, con l’andirivieni di quei messaggi che lo accarezzava – fresche onde, piccole onde capaci di portargli l’intero mare a pezzettini senza che si muovesse, senza fatica; piccole onde capaci di attirarlo nel continente sommerso senza che se ne rendesse conto, tra una coccola e uno spot, mentre scivolava lentamente dove tutto sembrava fatto su misura per lui e lui soltanto. Non c’era nemmeno bisogno d’imparare – tutto era illustrato passo-passo – bastava svuotarsi, come grandi scatole, e lasciarsi riempire dal nulla offerto nel continente.

Cambiò canale. Un altro spot. Un’auto grazie alla quale Pro e la sua famiglia sarebbero stati nuovamente felici, come gli attori in copertina, uniti dal nuovo mezzo di trasporto che avrebbero comodamente pagato dall’anno prossimo; soli: lui, sua moglie e la macchina – nuova.
Pro lesse il costo di quella felicità a tempo.
Ripensò alla sua auto.
Ripensò al suo portafogli.
Ripensò alla sua famiglia.
Ripensò a sua moglie.
Ripensò al lavoro.
Guardò il sorriso di quegli attori ed esplose in un grande urlo, un urlo nevrotico, drammatico, un urlo perché non riusciva a piangere: un urlo per spiegare quel dolore tappato dentro sé. Lanciò il telecomando per terra e si alzò di scatto dalla poltrona – si guardò intorno con forsennati occhi lucidi di delirio – il fiatone lo stava soffocando – la finestra – corse verso la finestra – spalancò le imposte – serrò gli occhi e si lanciò nel vuoto.

Rimase in bilico sul davanzale con il corpo che ciondolava tra la strada – tre piani più sotto – e il pavimento di casa. Fissò il vuoto con occhi sbarrati. L’elastico che teneva insieme le sue convinzioni si era definitivamente sfilacciato. Rimase in bilico sul davanzale finché la posizione non gli tolse il respiro, e si lasciò scivolare all’indietro accasciandosi sul pavimento come un sacco vuoto – i denti serrati e il viso rosso fuoco. Sollevò un braccio e sferrò un pugno violento contro il muro – sentì un gran dolore alla mano sinistra. Diede un secondo pugno, un terzo pugno e un altro pugno ancora finché, ormai esausto, appoggiò una guancia contro la parete e cercò di abbracciare il muro come se fosse una persona vera, perché aveva una gran voglia di abbracciare; ma tutto intorno a lui era quel muro: troppo grande per richiudere le braccia.

Trascorse un attimo come un giorno – appiccicato guancia e braccia contro il muro – finché non trovò la forza di sollevarsi e andare a buttare la testa sotto l’acqua fredda. La mano gli faceva male e sentiva un gran bruciore in gola. Gli unici organi ancora in funzione erano quelli che non poteva controllare. Tornò verso l’ingresso con la testa tutta bagnata e un’espressione ch’era un misto di fredda apatia e clinico distacco – il telefono continuava a lampeggiare occupato. Uscì sul pianerottolo e con uno slancio di fredda lucidità decise di richiudere la porta lasciando le chiavi dentro quella casa in cui non sarebbe rientrato finché non ci fosse stato qualcuno ad accoglierlo, almeno per aprirgli una porta.

16:30

Verso la Colletta

Coscienza

["imporre un desiderio è una mela marcia"]


Dilaniato. Scese le scale con metodica lentezza, studiando ogni singolo gradino. Giunse nell’androne e sradicò un rivolo di carta che usciva dalla buca col suo nome – si muoveva per abitudini. Lo guardò con occhi disillusi.
La didascalia sotto la foto invitava a realizzare i propri sogni – vacanze comprese – con un semplice prestito erogabile entro quarantotto ore a partire da subito. Pro capì, solo allora, d’esser rimasto senza sogni. Il suo cesto vuoto era caduto troppo in fretta, e i desideri hanno bisogno di tempo per divenire sogni; siano mesi come anni. Quei frutti nel sacchetto erano stati un’imposizione, e imporre un desiderio è declassarlo a compito, è spogliarlo della Poesia: imporre un desiderio è una mela marcia.
Uscì sul marciapiedi e vomitò il foglietto nel primo bidone. Si sentì immediatamente più leggero: con quel piccolo gesto di protesta si era riavvicinato a se stesso, mettendo d’accordo gesti e pensieri – realmente suoi – in un dolce sapore dal tempo perduto.

Rimase in attesa mentre la sua ombra si rifletteva sul bidone.
Era già successo altre volte, nello scorrer del suo giorno, che Pro perdesse la coscienza di se stesso attraversando periodi di sostanziale crisi. Odiava i cambiamenti, li temeva e li contava come cicatrici. Era cresciuto trasformandosi nelle mete che altri gli ponevano innanzi, e il suo non era un semplice concentrarsi per lo scopo o godere di una propria scelta, lui diveniva quell’obiettivo a tutti gli effetti. Esisteva in funzione del traguardo – ogni gesto, ogni azione – e quando, più o meno velocemente, tagliava il nastro dell’arrivo, allora soffocava la fugace soddisfazione nel letale smarrimento di perdere se stesso: nient’altro che un obiettivo finito. Smetteva di esistere in attesa che qualcuno gli accendesse un nuovo traguardo, gli dicesse cosa divenire e lo preparasse per scendere tra le acque del continente sommerso – quel bidone su cui si riflettono ombre in attesa di se stesse.
Continuò a muoversi per abitudini. Tornò nell’androne, salì in sella al suo motorino e dopo qualche pedalata si avviò per la strada seguito dal ronzio di un motore che innumerevoli volte aveva ascoltato come una fresca melodia.

Per il giovane Pro, quel motorino era stato il primo vero tuffo dentro un’onda del continente sommerso. Era stata la più semplice da acciuffare tra le varie comete che ogni giorno passano silenziosamente davanti agli occhi – sogni già pronti da desiderare. E poco importava che il motorino non fosse un sogno realmente suo: era comunque un desiderio, un desiderio che l’avrebbe condotto dentro l’acqua.

Proseguì per il lungo Dora in direzione corso Regio Parco. Faceva un gran freddo ma il suo viso in bianco e nero non temeva altri dolori.

Era febbraio e ne aveva appena quattordici quando si ritirò dal primo anno della scuola di Carità Arte e Mestieri di via Maria Ausiliatrice. In realtà non l’aveva proprio deciso da solo – di ritirarsi – per lui era sufficiente non toccare mai un libro come fosse veleno. Ci pensò la mamma: parlò col proprietario di un bugigattolo sotto casa che puliva l’argento e decisero di far provare il ragazzo – somaro ma di buona lena. Aveva appena quattordici anni quando fu costretto a diventare adulto; e lui, che della parola adulto conosceva soltanto un’età lontana dalla propria, seguì al meglio tutte le istruzioni che riceveva. Aveva ancora i braccioli quando si trovò costretto a nuotare ore e ore per non affondare – dieci ore al giorno per l’esattezza, pagate in nero. Aveva appena quattordici anni quando vide per la prima volta il calendario di “Max” e una femmina tutta nuda inchiodata al muro. Quando si rivolse a un uomo chiamandolo “capo”. Quando sentì la stanchezza, quella vera, che la sera gli aveva cancellato il vizio di ridere, scherzare e far parole con gli altri della casa. Aveva appena quattordici anni il giovane Pro quando la paura d’esser fuori luogo lasciò spazio alla soddisfazione d’avercela fatta. Imparò a nuotare, imparò a sopravvivere.

Passò accanto al Maria Adelaide e proseguì per il lungo Dora.

Come un elastico teso al limite, quando arrivava il sabato pomeriggio il giovane Pro scattava a giocare tra i colori e i profumi dell’amata Colletta. Durante quei pomeriggi faceva la scorpacciata di felicità, cercava di prenderne il più possibile, ma per quanta ne gustasse, non riusciva mai a compensare il resto della settimana da adulto. Allora iniziò a cercare una ragione che potesse giustificare quei giorni, che potesse compensare la solitudine, il distacco forzato dai suoi amici e da un ambiente scolastico che continuava a sognare attraverso i loro racconti. Iniziò a osservare le varie comete che gli passavano davanti gl’occhi e – tra le tante – scelse quella più consona al poster sullo specchio: il motorino. Ci volle un po’, ma visto che non aveva nemmeno la mutua, alla fine mamma acconsentì.
Era un bel sabato pomeriggio di marzo, il cielo blu e un caldo sole che risvegliava le foglie sugli alberi. Il giovane Pro stava quasi esplodendo sotto la pressione d’una scalpitante attesa. Raggiunse la solita fermata e si nascose dietro un angolo. I suoi amici arrivarono in perfetto orario – chi in pullman, chi in bici – e quando furono tutti riuniti, alle quindici in punto, il giovane Pro fece il suo regale ingresso a cavallo d’un motorino: fu un’immensa soddisfazione che gli fece brillare tutti gli occhi. Poté finalmente guardare altri suoi coetanei così com’era stato a lungo guardato – uno sguardo che aveva imparato alla perfezione talmente lo odiava.

Profondamente immerso nei suoi ricordi, Pro non si accorse che il motorino aveva smesso di ronzare – stanco di cantare la stessa canzone. Barcollò ancora pochi metri e si fermò nei pressi di corso Verona. Scese dai suoi pensieri sbattendo velocemente le ciglia – l’espressione ancora assente – e provò a pedalare qualche metro cercando di rimetterlo in moto, ma non ci fu verso: era finita la benzina.

Carburante esaurito. Spero che abbiate freddo.


Stava riacquistando coscienza. Una coscienza come non l’aveva mai avuta.
Appoggiò il motorino contro un palo e costeggiò il fiume proseguendo a piedi.

Al giovane Pro bastarono poche settimane per capire quanto fosse scomodo seguire i suoi amici in sella al motorino. Loro pedalavano con calma perché il tragitto faceva già parte della felicità: attraversavano i viali intorno alla Dora e ridevano tra gli alberi bucati dal sole. Lui, invece, ci metteva appena due minuti di solitudine per arrivare da casa al parco – due minuti di solitudine anziché quindici minuti di felicità – e non passarono nemmeno due settimane perché i suoi stessi amici gli chiedessero lo scopo del motorino: in fondo lavorava sotto casa e percorreva quattro minuti di strada soltanto il sabato. Ma lo scopo del motorino, appena il polverone d’euforia iniziò a dissiparsi, se lo chiese anche il giovane Pro. Perché? Aveva preso una cometa e l’aveva trascinata nel suo piccolo mondo – operazione semplice come staccare un assegno – trascurando, però, che il suo piccolo mondo non era strutturato perché quella cometa continuasse a brillare, il suo piccolo mondo era privo di strade asfaltate per utilizzare quel motorino, il suo piccolo mondo era ancora fatto di prati verdi dove i suoi desideri potessero espandersi liberi e incondizionati come un pallone.

Pro sentì di essersi lanciato da un treno in corsa: la botta faceva inizialmente male, ma adesso riusciva finalmente a distinguere le case e gli alberi che dal finestrino formavano un orizzonte confuso. Passeggiava al fianco della Dora mentre i suoi pensieri s’incastravano in forme perfettamente logiche, semplici e chiare come non gli erano mai parse. Fu come indossare una maschera sotto le acque del continente: poteva finalmente verificare con i suoi occhi quello che finora gli avevano soltanto raccontato.
A quel mestiere si dedicò: collocare ogni cosa al suo posto.

Si fermò nell’esatto punto dove tutto ebbe inizio: la fermata del 77. Alla sua destra la Dora si nascondeva sotto un largo ponte. Dalla parte opposta si estendeva il cimitero monumentale di Torino e di fronte prendeva forma il parco della Colletta – Pro sentì una gran voglia di correrle incontro. Riprese a camminare più velocemente e nascose un lieve sorriso: ogni cosa al suo posto.

17:30

Colletta

Primi passi

["Se ne andò come uno che ha la chiave giusta ma non trova la porta da aprire."]


Il viale d’ingresso alla Colletta si mostrò identico a sempre: incorniciato da forti alberi e tratteggiato da verdi panchine. Pro dosava i passi ascoltando lo scricchiolio della ghiaia sotto i suoi piedi. Si fermò di fronte al loro campo preferito, il primo prato sulla destra.

Appena sfiorata l’erba di quel parco si trasformavano in cinque coboldi: padroni assoluti e trovatori d’una rara felicità. Occupavano il campo raccontandosi i fatti della settimana, divorando quelle notizie che non avevano detto a nessuno per il piacere di poterle gustarle insieme. Ruminavano e metabolizzavano sette giorni di vita rivestendoli con parole amiche, e se qualcosa li aveva spaventati la ridimensionavano insieme, se invece li aveva esaltati la gonfiavano oltremodo. Su quel prato dialogavano finché il discorso non scivolava irrimediabilmente sui quattordici anni e la scuola, quando la fantasia stravolgeva il mondo mille volte ogni giorno; e allora il giovane Pro si sentiva inizialmente escluso – vittima di una settimana in cui i giorni scivolavano via tutti uguali – ma poi era giusto il tempo d’accendere la fantasia e di vivere quei racconti con l’immaginazione, era giusto il tempo di ricordarsi che anche lui aveva quattordici anni perché entrasse nei discorsi come se fosse stato ogni giorno insieme ai suoi quattro amici.

Pro rivide per un attimo le loro cinque sagome accampate al centro di quel prato – con zaini, bici e suppellettili vari – e gli sembrò di vivere un incubo che faceva spesso da piccolo: trovarsi legato all’ingresso di un luna park e guardare gli altri bambini divertirsi – con le giostre, lo zucchero filato, le musiche – senza poterci entrare. Anche il vento aveva lo stesso profumo d’allora, quel vento contro cui lottava d’inverno quando finiva in porta tutto sudato, quel vento che alla sera portava l’aroma di legna bruciata e scuoteva le foglie secche come uno scroscio d’applausi.
Salì sul tappeto d’erba e camminò verso l’albero più grande – il suo preferito – quello che custodiva le biciclette, riparava dal freddo e faceva anche da palo. Si appoggiò di schiena contro il tronco. Si appoggiò sistemandosi con precisione perché fosse perfettamente aderente, perché le gambe del grande albero e la sua schiena divenissero tutt’uno. Aprì la mano sinistra sulla corteccia per cercare i battiti di un cuore marrone come i suoi occhi, e si lasciò lentamente scivolare verso terra finché non fu accovacciato ai piedi del grande albero. Abbandonò la testa all’indietro e contemplò l’armonioso intreccio di rami, pieno di affetto e ammirazione.
Immerso in quel tempio di sensi perduti, il viso di Pro apparve finalmente disteso e colorato di un’espressione ch’egli stesso avrebbe faticato a riconoscere. Accovacciato ai piedi del grande albero nessuno avrebbe potuto fargli del male, perché lì, tutto ciò che contava non poteva essere rubato. Chiuse gl’occhi e conservò i suoi ricordi come reliquie.

Giunse il momento di far le squadre. I coboldi si raccolsero intorno al grande albero per la conta del pari o dispari aspettando il giovane Pro – impaziente di giocare e già impegnato in una serie di palleggi al centro del prato. E fu proprio durante uno di quei controlli – più veemente del solito – che il pallone rotolò fuori dal campo e lungo il viale fermandosi contro una panchina occupata da due ragazzi seduti sullo schienale e di spalle al campo.

“Scusate?”, urlacchiò il giovane Pro con voce sottile e stonata.
Silenzio.

“Palla per favore!”
Niente.


Il silenzio si fece imbarazzante e il giovane Pro decise di risolvere la questione in autonomia. Saltellò fino al viale, raccolse il pallone e nel tornare indietro alzò lo sguardo verso i due giovani muti. Erano identici. Stessa pettinatura – capelli unti o bagnati che sotto il sole non si capiva, ma di certo immobili – stessa espressione, stesso abbigliamento. Di un colorito bianco trasparente, come degli ologrammi. Ma fu soprattutto la bocca a spaventare il giovane Pro: era come se la bocca non ce l’avessero, o meglio, era limitata a una piccola fessura buona soltanto per nutrirsi e sputare. Per comunicare tra di loro utilizzavano un piccolo telefono senza fili, e su quel telefono premevano freneticamente i tasti con entrambe le mani, pigiavano a velocità forsennata, come se il tempo fosse denaro, pigiavano e fissavano il display con espressione impietrita: improvvisamente i due ologrammi, identici e di comune accordo, piantarono lo sguardo dentro i suoi occhi marroni, e la bocca, la loro piccola bocca era scomparsa – due ologrammi senza bocca. Il giovane Pro fece un balzo di lato per lo spavento. Strinse il suo pallone sotto il braccio e corse incontro agli altri coboldi che lo stavano ancora aspettando.

S’era assopito ai piedi del grande albero. Aprì gli occhi scoprendo un battito accelerato e una sensazione di disagio non consoni a quel luogo: si accorse, solo allora, d’aver lasciato il cellulare a casa. Provò un immediato senso di smarrimento. Iniziò a temere che le peggio disgrazie potessero colpire lui o qualche suo caro da un momento all’altro. Era spoglio, isolato dal resto dell’umanità. Ma poi guardò nuovamente il grande albero, ripercorse le vicende del suo giorno, ripensò ai suoi cari e capì, solo allora, che le peggio disgrazie non temono i cellulari. Quelle paure, abilmente orchestrate, lo avevano inchiodato nel continente sommerso facendogli credere che fosse l’unico posto realmente sicuro.
S’incamminò verso il viale chiedendosi in quale ora del giorno fosse.

“Scusa, hai l’ora per favore?”, chiese a un ragazzo seduto sopra lo schienale della panchina.
Silenzio; il ragazzo gli porse un cellulare con l’ora illuminata.


Quell’immagine suscitò in Pro un gelido senso di familiarità, ma non riuscì a recuperarne il ricordo. Si allontanò senza ringraziare e soffocò una gran voglia di parlare – al ragazzo, all’albero, al prato – perché nell’inflessione musicale della voce viaggiano sentimenti che non esistono altrove, nel profumo di umide labbra si celano emozioni troppo delicate per far rumore, nel percorso di sguardi suonano violini che sanno commuovere. Se ne andò soffocando una gran voglia di parlare. Se ne andò come uno che ha la chiave giusta ma non trova la porta da aprire.
Proseguì lungo il viale sterrato fino al centro del parco, dove si poteva raggiungere ogni stanza della Colletta. Proseguì verso sinistra – perché in fondo era sempre mancino – proseguì fino al grande campo e si fermò a contemplarlo con gl’occhi di una donna a lungo amata, una donna, quel campo, che lo aveva prima sedotto e poi tradito.

Che fossero amici o parenti, quando avevano un’età simile alla sua e venivano alla Colletta insieme agli altri coboldi, il giovane Pro li odiava e un po’ li temeva perché minacciavano la calda consuetudine del sabato pomeriggio. Lo facevano sentire inferiore. In loro scovava sempre qualcosa che lui stesso sarebbe voluto essere, ma non riuscendoci, finiva per disprezzarli, finiva per estraniarsi dalla partita, dai dialoghi e da tutto il resto. Quel pomeriggio accadde di peggio. Quel pomeriggio arrivarono in sedici, come gli anni del giovane Pro. Una delegazione dal continente sommerso, sedici ologrammi identici che non trovando altro spazio sbarcarono sul campo dei coboldi e ordinarono squadre miste per giocare tutti. Le ragazze si schierarono a bordo campo, e il giovane Pro venne accartocciato nello schieramento opposto ai suoi quattro amici: andò in porta cercando riparo nella posizione più defilata. Bastarono pochi minuti perché tutte quelle gambe alzassero un gran polverone di terra e di voci, poi ci fu un capovolgimento di fronte e un delegato in squadra con il giovane Pro – non riuscendo a vedere oltre il proprio naso – urlò: “Ma chi c’è in porta?”. Fu allora che il frastuono delle gambe, il polverone di terra, le urla dei giocatori e ogni altro rumore in quel luogo venne sovrastato da un coro di voci femminili che rispose prontamente: “C’è ciccio!”, indicando il giovane Pro, e quella porta fatta da due zaini divenne immediatamente un palcoscenico sul continente sommerso, quella porta lo consegnò al pubblico ludibrio. Il giovane Pro non batté ciglio, continuò a fissare il polverone e odiò il grande campo che lo aveva tradito.

Quel pomeriggio, per la prima volta, si vergognò d’essere grasso. Certo, si era già riproposto di dimagrire, ma semplicemente per essere più veloce nel gioco e battere il suo personale record di gol. Quel pomeriggio, invece, odiò il suo corpo, il grande campo e la cucina della mamma. Quel pomeriggio i delegati dal continente sommerso giocavano in jeans, avevano magliette attillate e prendevano a calci il pallone con scarpette firmate Clarks. Il giovane Pro, invece, indossava da anni la stessa maglietta verde con l’abbreviazione dell’oratorio che si leggeva “sangiak”.

Quel pomeriggio tutte le ragazze della Colletta mutarono gradualmente in tipe, e le tipe monopolizzarono l’attenzione del giovane Pro che iniziò a scrutarle con occhi nuovi, avidi, orgogliosi. Cosicché, mentre il pallone rotolava incredulo verso la strada, lui si precipitava lungo il viale in cerca di tipe a cui chiedere dapprima l’ora, poi l’accendino e infine addirittura il nome, che forse era già mezza innamorata di lui.

Quel pomeriggio i delegati abbandonarono il parco proprio nel momento più caro ai coboldi, quando l’aria si rinfrescava e si poteva giocare un’ultima deliziosa partita. Se ne andarono senza nemmeno dirselo, perché era giunto il momento di prepararsi per il sabato vero, il sabato da far venire la febbre anche a chi stava davanti la tv. Il giovane Pro scoprì il sabato sera. Quel pomeriggio, per la prima volta, pronunciò a voce nascosta un sincero “beati loro”, e da allora iniziò a vivere non più per se stesso e i propri sogni, ma perché qualcun altro, un giorno, potesse rivolgersi a lui pronunciando lo stesso connubio di parole.

Quel pomeriggio il giovane Pro cominciò la sua lenta immersione tra le acque continente sommerso, senza alcun pudore, perché quel desiderio l’aveva già nascosto troppo a lungo.

18:30

Bar

Osservazione

["Non avrebbe nuovamente cancellato, con lo straccio del destino, quelle decisioni di gesso che non aveva mai avuto il coraggio di prendere."]


Fu l’insistenza di un suono delicato a scollare Pro dai suoi ricordi e dal grande campo a cui la luce della sera conferiva una cerea immagine d’armoniosa quiete: accanto alle sue gambe si era fermato un cane lupo che abbaiava a intervalli brevi ma costanti – pelo nero e orecchie alte – abbaiava dolcemente, languiva e sospirava lo sguardo verso terra.
Pro sentiva ogni abbaio rimbombargli dentro: era quasi sgombro. Stava facendosi spazio come un bidone liberato dall’immondizia; e non soltanto per il contenuto, ma per come gliel’avevano sempre ficcata dentro: prendere, prendere, prendere senza mai chiedersi cosa né perché. Sacchetti violentemente sbattuti in faccia – e se cadeva doveva scattare in piedi fingendosi più forte di prima. Sacchetti che alla fine del suo giorno, per la prima volta, stava tirando fuori – uno a uno – per ispezionarli e decidere cosa tenere. È vero che smuoverli aveva alzato un odore nauseante, ma sotto quei sacchetti c’erano spazi realmente suoi, spazi che aveva bisogno di sentir liberi, puliti, sterilizzati. Avrebbe deciso da sé quando e da chi farsi aprire; non sarebbe rimasto ad aspettare il prossimo sacchetto in faccia sperando che fosse morbido e che contenesse almeno un desiderio realmente suo. Non avrebbe nuovamente cancellato, con lo straccio del destino, quelle decisioni di gesso che non aveva mai avuto il coraggio di prendere.
Ma quel suo giorno stava volgendo al termine.

“Ciao”, languì Pro.


Il lupo guaì dolcemente e si lasciò guardare nel profondo d’interminabili occhi neri. Scrutando quegl’occhi, Pro ci trovò la sua stessa nostalgia, la nostalgia di chi troppe volte aveva perduto la strada di casa, di chi era costretto a rifugiarsi nella propria tana – tra il freddo della neve e il nero di quegli occhi. Ci trovò lo stesso bisogno di scaldarsi per non farsi uccidere dal vento che soffiava dentro; la rabbia, il dolore di non riuscire a dimenticarsi il calore che soltanto un abbraccio; e le ferite, le cicatrici di troppe promesse disattese.

“Chi sei?”, si domandò Pro continuando a frugare il nero di quegli occhi.


E capì, solo allora, che per darsi una risposta doveva prima strappare il suo giorno da quel binario morto. Doveva abbandonare l’alterego telecomandato e tornare a vivere le emozioni di desideri realmente suoi, non quel surrogato di sensazioni già filtrate. Doveva uscire dalle acque del continente, a costo di soffocare.

Alzò lo sguardo verso un cielo viola per cercare, tra gli stracci di nubi, delle forme che neanche lui sapeva ancora bene e s’incamminò verso la stanza con i giochi per i bambini. Il lupo guaì – dando un suono a tutto quel rammarico – e seguì fedelmente le sue orme. Costeggiarono il campo di bocce – trascurato e ingiallito – e si fermarono davanti al capannone con il bar.

Dopo un torrido pomeriggio sotto il sole, niente al mondo valeva più dell’acqua fresca e di un gelido ghiacciolo al bar. I coboldi facevano a gara per arrivare primi alla fontanella – col fiatone che ancora pulsava dentro il petto – per spalancare alla sete le loro bocche aride e asciutte. E al termine di un caldo pomeriggio, i coboldi spinsero la porta del capannone per concedersi il lusso d’un ghiacciolo alla menta. La vecchia signora del bar s’infilò dentro il frigo e se uscì con quattro gelide barrette avvolte in una carta trasparente con i frutti disegnati che s’appiccicava dove il ghiaccio era più succoso. Poi venne il turno del giovane Pro – bidone già sufficientemente pieno di sacchetti, poster e slogan – che di fronte al bivio abbandonò il suo vero desiderio e scelse l’altra strada: ordinò un Long John. Un Long John che la vecchia signora non sapeva neanche cosa fosse. Un whisky quando il termometro segnava trenta gradi all’ombra e lui stava morendo dalla voglia di un ghiacciolo con la carta appiccicata – ma il poster aveva un’espressione dannata, e lui sorseggiò l’ambrato nettare mentre si accese una Lucky Strike, convinto che, prima o poi, ne avrebbe raccolto i frutti.

Spinse il maniglione antipanico e fu nuovamente in quel bar. Era la prima volta dal whisky, ma i frutti che aveva raccolto erano tutti marci. Occupò un tavolino defilato mentre il lupo si accovacciò ai suoi piedi. La vecchia signora era diventata vecchissima e forse non sapeva ancora cosa fosse un Long John. L’intero bar era un ampio stanzone pieno di tavolini e brizzolato da teste bianche e rosa di corpi prossimi alla notte. Teste bianche e rosa che gracchiavano sopra residui di argomenti, perlopiù bestemmie, tosse e insulti più o meno violenti a seconda della mano di briscola – erano tutti dotati di carte e bicchieri oleosi.

Eccoli i frutti. Perché non stampano queste immagini sul poster? Sui cartelloni?
A che servono le scorze di combustibili spremuti fino all’osso? Tutti i traguardi raggiunti, le battaglie, i ricordi: a che servono in quest’angolo di mondo acusticamente isolato dal resto? L’esperienza, perché non usarla prima che sia notte?


Tutto era uguale in quel bar. Tutto tranne Pro.

Dal suo tavolino defilato osservò una testa rosa che tra una carta da gioco e un goccio d’amaro guardava l’orologio con ripetuta insistenza e s’immaginò che in qualche casa adottata come sua lo aspettasse il rimasuglio d’una remota astrazione chiamata matrimonio. Pro ripensò ai suoi amori interinali, alle donne con cui s’era accompagnato, e trovò, solo allora, un filo che legava tutte quelle ragazze così diverse: ognuna l’aveva fatto sentire quella persona ideale che lui stesso sognava di essere. Ogni relazione tamponava il suo continuo bisogno di conferme, e ogni donna era stata una medicina per colmare il vuoto al momento più grande tra i vuoti che si rincorrevano nella sua esistenza. Una medicina prescritta col meccanismo dei quindi: con lei si sentiva bene quindi era quella giusta – con lei stava divenendo una persona migliore quindi era merito suo – per lei non dormiva la notte e quindi s’era innamorato: ma l’amore non ammette quindi, e nonostante Pro l’avesse anche sospettato, fece sempre finta di nulla per non costringersi a conoscere se stesso anziché specchiarsi in un’altra persona. Poi raggiunse un’età e una condizione sociale che lo fecero innamorare del matrimonio, e perso tra le volte di un ideale, trascurò che non avrebbe sposato nulla di tutto quel gran sognare, ma soltanto lei; e in lei ci aveva anche creduto, per quel matrimonio avevano inseguito tutto ciò che non fosse loro stessi ma che su di loro si basasse: case, auto, viaggi, consulenti matrimoniali, figli – in quel preciso istante Pro ringraziò di non aver mai trovato il coraggio – finché esausti di correr dietro al nulla, iniziarono a vivere come se la vita fosse soltanto un istante, un giorno, perché tra le acque del continente finiva per esser sempre così.

Fu ancora un suono costante a recuperare Pro dai suoi pensieri, l’abbaiare metodico e preciso di un cane metallico. Guardò la parete e ci trovò l’unico segnale di progresso entrato in quel capannone: dove c’era il telefono adesso suonava e s’illuminava una macchinetta da casinò, una macchinetta al comando d’una silente testa più giovane e meno bianca delle altre: due occhi morti sul video e nessun altra espressione. Un automa che strisciava dallo sgabello alla cassa, comprava monete e le infilava nella macchinetta perché si lasciasse toccare i tasti maliziosamente illuminati; un automa talmente eccitato da non smettere d’infilare monete e toccarla, infilare monete e credere che i tasti fossero realmente suoi. Un automa privo d’ogni altro desiderio che non fosse il noleggio d’un azzardo apparente, di un’esca a cui era appesa la briciola di un’emozione in cambio di tutti gli altri sensi. Un automa, eccitato ma senza espressione.

Pro capì che in quel luogo non c’era altro da capire. Si avviò verso l’uscita in compagnia del lupo. Spinse la maniglia e andò quasi a sbattere contro un uomo in tuta blu che stava entrando nel bar: Pro gli tenne la porta aspettando che si trascinasse dentro un piccolo carrello carico di scatoloni marroni. L’uomo in tuta arrivò in centro alla stanza e iniziò a buttare gli scatoloni in terra, strapparne il nastro protettivo come si stappa una lattina e verificare che il contenuto fosse quello indicato sulla ricevuta. Svolgeva il suo lavoro con rabbia. In pochi istanti aveva stappato decine di scatoloni e appannato la maglia di sudore. Dalla visiera del cappello sporgevano due occhi serrati di stanchezza. L’uomo in tuta sollevò l’ultimo scatolone e sbattendolo in terra rimase abbassato – le gambe divaricate e la braccia giù – alzò la testa e infilò uno sguardo rabbioso e sprezzante verso gli occhi di Pro, rimasto a fissarlo con la porta del bar ancora aperta.
A metà tra il bar e il parco, per la prima volta, Pro venne accusato da uno sguardo estraneo senza provare paura né disagio. Uscì dal bar senza fretta e lasciò l’uomo in tuta a stappare scatoloni, trascinare carrelli e controllare ricevute, una dopo l’altra, perché quello era l’imperativo del continente sommerso: fare, fare, fare senza mai fermarsi, senza perdere tempo a pensare, a porsi domande, a godersi le proprie cose. Fare, qualunque siano le proprie circostanze e le reali necessità. Perché di reale, in quel continente, non c’era nulla.

19:30

Al tramonto

Nascita

["senza la percezione delle proprie scelte si finisce per non sapere più chi ma soltanto cosa."]


Uscirono dal bar e proseguirono verso la zona con l’altalena, lo scivolo e qualche cavalluccio per bambini. Il lupo si fermò sul prato e assunse il portamento più fiero che sapesse, Pro arrivò alla fontana e si limitò a controllare che ne uscisse acqua, come nei suoi ricordi. Fece qualche passo intorno ai giochi e si fermò accanto all’altalena. Se la ricordava più grande. La spinse con la mano sinistra e ripensò all’uomo in tuta blu.

Sarebbe stato meglio impiegare questo mio giorno facendo qualcosa di utile?
Ma di utile a chi?
Di certo non a me stesso che ho lavorato ogni attimo per avere di più, e ogni attimo più del precedente. Ho faticato a dismisura per avere mezzi che mi consentissero di godere il tempo libero, per avere queste altalene. E nel tempo libero? Non ci sto nel seggiolino.


Spinse l’altalena con più decisione.

Cosa mi resta ora ch’è già il tramonto?
Qualche moneta per noleggiare emozioni a intermittenza e una casa dalla quale ho desiderato chiudermi fuori. E perché dovrei continuare così? Per avere altri mezzi che lo giustifichino: lavorare per comprarmi qualcosa che giustifichi il lavoro anziché per vivere.

Il mio giorno è trascorso in balia degli eventi. Io non ho mai scelto, non ho mai preso una decisione che non mi fosse già stata indicata o mezza suggerita. Mi sono riempito di nulla, e per non pensarci l’ho fatto sempre più velocemente, così velocemente da non avere il tempo di pensare ma solo di fare: altrimenti le balene mi avrebbero sputato fuori dal continente sommerso.

Ma fuori dove?
Dov’ero prima di scendere tra queste acque, prima di seguire le comete fino alla riva, prima di credere agli spot sul bagnasciuga. Fuori dove sarò costretto a decidere da solo. E lì fuori non sarà affatto semplice tornarci; io lo so perché in cuor mio c’ho già provato: nascosto dal buio di qualche notte, ho buttato la testa fuori dall’acqua e ho sentito un gran freddo, un freddo più gelido di quanto mi avessero raccontato, un freddo che toglieva il respiro. E allora son tornato dentro, sono sceso nel profondo di queste acque. Ma soltanto adesso capisco che si trattava d’un freddo fittizio, percepibile solo uscendo dal continente sommerso dove tutto brucia con una velocità frenetica; e io sono stanco d’essere combustibile. Fuori da queste acque mi sentirò inizialmente inutile, sperduto, sconfitto; ma senza comete da rincorrere potrò nuovamente camminare alla mia velocità, saprò finalmente distinguere ciò che vogliono da ciò che voglio.

Mentre qui, qui sono costretto.
Mi hanno sedato con dosi di ansia, depressione, paura di smarrirmi. Tengo acceso un navigatore che ripete in continuazione la stessa direzione, e benché l’abbia imparata a memoria non ho mai avuto il coraggio di spegnerlo. Mi hanno iniettato la paura di rimanere solo perché solo è sinonimo di malattia, e allora mi sono circondato di persone con cui non ho nulla da dire se non quello che già si possa vedere, tante persone, troppe; ma nella solitudine di questo mio giorno io sono arrivato fin qui.
Mi hanno insegnato che avendo poco si diventa tristi, e io ho continuamente confrontato il mio giorno con quello di chi stava sopra – perché sopra ci sarà sempre qualcuno – e in fondo, un po’ triste lo sono sempre stato. Ho anche gettato il cestino per le mie scelte in cambio d’una bancarella migliore; ma senza la percezione delle proprie scelte si finisce per non sapere più chi ma soltanto cosa.
Tra le acque del continente abbiamo percezioni distorte, percezioni che ci fanno apparire enormi cose prive di significato, percezioni con le quali valutiamo anche noi stessi e le altre persone. Tra le acque del continente abbiamo percezioni che ci guidano alla ricerca di qualcosa che non avrà mai fine – se non al tramonto – qualcosa che distrugge più di quanto crea.

Io ho sempre cercato di più e non ho mai avuto il tempo di amare ciò che già avevo.
Più ho meno amo.
E amando questo parco non desideravo altro, ecco il problema.


Il dondolio dell’altalena e il fruscio della fontana riecheggiavano nel silenzio religioso del parco. Il giallo dei lampioni era circondato da ampolle di nebbia sottile, polvere umida; e il cielo, viola scuro, era strappato da lembi di nuvole nere. Oltre le altalene e il prato, al di là della strada, il cimitero si era acceso di tremuli lumini come una miriade di candele esposte al freddo del vento, specchio d’un cielo stellato. Pro cercò di contare i lumini attraverso il cancello laterale – al tramonto stava seguendo la notte: le ultime ore del suo giorno – sentì il bisogno d’uno sguardo amico, si girò verso il prato, ma il lupo non c’era più. Raggiunse il punto in cui l’aveva lasciato e guardando attentamente lo scorse in lontananza: stava entrando nella penombra del grande campo per dileguarsi con passo elegante e solitario. Pro continuò a seguirlo con lo sguardo, e in cuor suo lo ringraziò come non aveva mai fatto con nessuno; perché mai nessuno l’aveva ascoltato con tanta dolcezza. Continuò a seguirlo con lo sguardo finché la sagoma non divenne la stessa del parco e – solo allora – sentì un nodo in gola che gli tolse il respiro.

S’incamminò verso la strada con passo elegante e solitario. Uscì dalla Colletta nudo e un po’ bambino com’era. Si voltò indietro un’ultima volta e provò per quel luogo e per quella parte di se stesso che in quel luogo era rimasta, un amore tale che pensava appartenesse solo ai racconti; e allora capì – tra le lacrime – che i racconti come l’amore sono fatti d’una Poesia delicata, una Poesia che richiede il tempo d’essere ascoltata in silenzio per capire dove stia dolcemente bussando.

Passò accanto al cimitero e guardò oltre il cancello: tra tutti i lumini ce n’era uno che non tremava più.

20:30

Verso la notte

Morte

["C’era profumo di legna bruciata nel vento."]


La Dora danzava sinuosa nel proprio letto, avvolta di fascino e mistero, ora in penombra e ora illuminata dal chiaro di luna. Pro si fermò sul ponte a rimirarla, ad ascoltare il brusio dell’acqua duettare col vento e le fronde degli alberi: una musica malinconica che suonava proprio come se la stava immaginando; e sopra quel ponte, gli parve d’essere il direttore d’una grande orchestra.
Annusò il profumo di legna bruciata nel vento e s’incamminò verso la fermata del 77.

Accadde un pomeriggio che il giovane Pro, ansioso di essere adulto sette giorni su sette, esplose la sua arringa davanti agli altri coboldi.
Era un consueto dopopartita, il sole sbiadiva lo schienale delle panchine e il profumo di legna bruciata riempiva il cielo. I coboldi occuparono le solite postazioni parlottando dei loro piccoli mondi; tutti tranne il giovane Pro: lui rimase in piedi, un po’ in disparte, e aspettò che gli altri avessero finito i preamboli per gonfiarsi il petto e dar fiato alle proprie ragioni.

Disse ch’era giunta l’ora di guardare oltre, di crescere. Disse che non potevano continuare a far finta di nulla. Tutto stava cambiando, tutto tranne loro cinque, ancora lì a trascorrere lo stesso sabato da anni, con un pallone, due squadre e qualche ghiacciolo. Disse che stavano diventando ridicoli, patetici, e lui se n’era già accorto da mesi. E lo disse velocemente, tutto d’un fiato. Poi rimase in silenzio; un po’ di asma e il cuore che spingeva nel petto. C’era profumo di legna bruciata nel vento.
Il più giovane dei coboldi fece notare – con voce sottile – che non c’era nulla di male finché continuavano a divertirsi; e allora il giovane Pro rincarò la dose, continuò dicendo che se il lunedì mattina non aveva mai nulla da raccontare era colpa di quel parco. Il suo collega era sempre carico di strabilianti avventure, e ogni esperienza – immaginaria o reale che fosse – lui l’aveva già vissuta. Parlò più velocemente ancora il giovane Pro, arringò finché l’asma gli smussò la voce, e allora, prima che tornasse quella sottile di sempre, concluse in gran stile.

“Gli altri si stanno mangiando la vita a morsi mentre noi cinque siamo ancora qui a spizzicarla.”
Silenzio.
Fiatone.

“Il mio collega mi ha raccontato di un locale che il sabato è pieno di musica, luci, feste e un sacco di gente. Sabato prossimo ci sarà anche lui ad aspettarci.”


Voltò le spalle al sole e se ne andò portandosi dietro il profumo di legna bruciata.

Gli altri coboldi ci misero un po’ a metabolizzare quelle parole, ché per loro luci, festa e un sacco di gente erano come Las Vegas per un contadino delle valli: difficile da credere e in fondo anche un po’ inutile. Quel pomeriggio rincasarono in quattro e senza ruminare felicità. Quel pomeriggio rincasarono avvolti nel cruccio d’un dubbio crescente: si stavano davvero perdendo qualcosa? Dovevano solo capire cosa, anzi, immaginarselo. E quando le parole del giovane Pro iniziarono a prender forma nella loro fantasia, allora provarono a collocarci le loro timide sagome in mezzo – tra le luci, la festa e il sacco di gente. Iniziarono a parlarne tra una campanella e l’altra della scuola, iniziarono a condividere paure, intuizioni e crescenti aspettative. E laddove non osavano, laddove non riuscivano proprio a immaginarsi, allora ci pensava il manuale tv – brochure del continente sommerso – a fargli vedere come si faceva e quali premi c’erano in palio.

Bastarono altri due pomeriggi al parco – già diversi nella sostanza – e furono tutti d’accodo: quella sera sarebbero usciti anche loro. Adulti, finalmente.

Il cielo blu sopra la Colletta venne eclissato sempre più velocemente dalla fretta, dall’attesa che il sabato sera mantenesse le promesse da manuale. Iniziarono a correre pensando ad altro, iniziarono a rincasare sempre prima, e – benché il più piccolo dei coboldi si lamentasse in continuazione – finirono per sacrificare il sabato pomeriggio sull’altare di promesse sentite, sperate e credute: sull’altare del sabato sera. Ben presto persero la propria identità. Ogni settimana divenivano la meta da raggiungere con la prossima uscita. Vivevano sei giorni in funzione del premio, di un momento talmente carico di aspettative che non li avrebbe mai soddisfatti abbastanza. Di settimana in settimana perdevano e si ricostruivano un’identità, buttavano un altro gettone dentro la macchinetta e aspettavano l’asso d’una briscola truccata. Ogni settimana scendevano più in basso tra quelle acque, finché arrivarono dove il sole si spegneva nel buio di troppe domande, nella miseria emotiva del continente sommerso. Nuotarono anni prima di capire che là sotto non c’erano frutti né felicità. E benché altri abitanti del continente sostenessero che la felicità fosse pura utopia, loro potevano dire d’averla provata, d’essersela spalmata dentro le vene, tra le viscere. Quell’esperienza a molti sconosciuta, loro l’avevano già provata.

Qualche prodigo sabato ci ritornarono anche alla Colletta. Frugarono e guardarono ovunque, ma di quei frutti nemmeno l’ombra. Trovarono soltanto un’apatica distesa d’erba e delle scomode panchine. Guardarono la Colletta dal fondo degli abissi e non videro altro che statue di cera con i loro volti sorridenti, come un mausoleo, il mausoleo della felicità.

Pro vide la sagoma del 77 in lontananza. Tutto intorno era buio, quasi notte, e per la prima volta sentì poche dita per contare. Fissò l’autista lasciando a lui la scelta di riportarlo verso casa. Anziché un rombo e assordanti fischi fu un sottile sibilo, ma il 77 si fermò. Pro salì a bordo – era l’unico passeggero – e occupò l’ultimo posto in fondo, cercando di scaldarsi sopra il motore. Gli occhi umidi.
Il pullman si fermò in attesa del verde. Pro guardò fuori dal finestrino e accanto al marciapiedi vide il suo motorino steso per terra: mancavano la sella, la marmitta e un pedale. Lo osservò senza cambiare espressione, come un brutto ricordo.

Attraversò il ponte Mosca guardando le stelle e fu di fronte al portone di legno: qualcuno avrebbe dovuto aprirgli la porta o non entrato in casa. Suonò il citofono con il suo nome.

“Ci sei?”


Silenzio. Ci provò un’altra volta, e un’altra ancora, ma in corrispondenza del suo nome non rispose più nessuno. Provò a spingere il portone di legno: aperto. Entrò cercando riparo dal vento e salì le scale senza contarle: non aveva altre domande da porre a quel suo giorno. Bussò ancora alla porta di casa sua, ma non trovò nessuno in ascolto. Sotto il tappetino sporgeva un biglietto. Lo raccolse.

“Ti ho lasciato le chiavi dove sai”

Pro salì due piani e raccolse le chiavi di casa dal quel nascondiglio che aveva accuratamente studiato per il primo regalo d’anniversario.

Quando aveva scelto quel regalo, un anno era volato come l’ultimo giorno di vacanza, quando vuoi fare tutto perché sembra che ti rubino il tempo. Un anno con lei ch’era stata desiderio e scommessa come nessun altra. Scommessa perché piaceva un po’ a tutti, e desiderio perché non l’aveva mai degnato d’un’attenzione. Poi un giorno si trovarono a parlare da soli, e da quel momento lui divenne il suo personale orsacchiotto con cui consolarsi le delusioni sentimentali. Non lo considerava tanto uomo – perché i veri uomini l’avevano sempre fatta soffrire – ma era sempre disponibile quando lei ne aveva bisogno. Venne poi l’ora di metter su famiglia – come diceva papà – l’ora di passare da single a moglie e, ripensando alla schiera di pretendenti, scelse quello che fosse privo di tutti i difetti che l’avevano fatta piangere, colui che sarebbe stato il miglior padre per i suoi figli, l’uomo che l’avrebbe amata anche durante il tramonto. Scelse lui, rinunciando alla forza di sentimenti che non avrebbe più provato.

Raccolse le chiavi e aprì la porta di un nome che non gli apparteneva più. Occupò il posto dentro la sua poltrona e si asciugò le lacrime.

Era notte. La notte d’un giorno incompleto come certe vite.
Vite da un giorno.