La doccia aveva innaffiato quelle fragili supposizioni fino a renderle granitiche certezze: l’avrebbero finalmente chiamato – una voce professionale e falsamente amichevole, il lavoro.
Questa volta non sarà il solito colloquio, che ormai tutte le agenzie di Torino hanno una scheda col mio nome, questa volta sarà una conferma.
E già s’immaginava un daltonico sorriso di benvenuto, poche istruzioni e una salda stretta di mano – sinistra se possibile, che lui era mancino.
Saranno anche stati pochi minuti di fredda chiacchierata, ma li avranno finalmente convinti che qualcosa la so fare anch’io!
Assunto. Sette lettere. Comincerò subito? Oggi pomeriggio?
Facciamo domani, così ho il tempo di prepararmi.
E nel mentre che assemblava congetture e accendeva il cellulare, furono sufficienti pochi attimi perché un sordo frinire spappolasse il torpore della stanza: BIP – BIP – il cuore di Pro venne shakerato da un cocktail di paura e sorpresa. Il sorriso crebbe fino a riempirgli il volto. Contemplò qualche istante l’immagine della bustina sul display – gli dava sicurezza e lo faceva sentire agganciato al resto del mondo – e aprì il messaggio.
Aveva l’abitudine di leggere i messaggi a voce alta perché così gli sembrava che fossero qualcosa di più simile a un dialogo che al testo di un grigio display.
“Spot: Vinci subito un fantastico viaggio tutto per te. Visita il nostro sito internet o vai alla pagina del televideo. Non aspettare!”
Pro, che di internet conosceva pressappoco il nome, accantonò il cellulare sul divano e normalizzò i battiti del cuore.
“C’è scritto cretino qui, vero?”
Ma bastarono pochi secondi perché si desse anche una risposta, silenziosa, come tutto quel suo personalissimo dialogo, ma pur sempre una risposta. Gli bastarono pochi secondi per convincersi che qualche equilibrio cosmico doveva pur esserci. E’ vero, a lui non era concesso di prevederne gli effetti né di comprenderne le dinamiche, ma per certo nulla che sia privo di equilibrio potrà mai stare in piedi; e quel mondo era lì, ben saldo sulle proprie gambe. Non sarebbe stata l’assunzione – almeno per ora – ma neanche un altro anno senza vacanze. Il fantastico viaggio premio sarebbe stato un giusto compromesso.
Vorrei conoscere qualcuno, almeno uno, un’altra persona nell’accozzaglia di quanti siamo che si meriterebbe un premio più di me. Un fantastico viaggio, esatto. Chi? Chi di viaggi potrebbe permettersene uno al mese? E poi, perché mai chi potrebbe permettersi un viaggio al mese non dovrebbe gustarsi il piacere d’un viaggio al mese? Per lavorare, giusto. Ma lavorare per cosa? Per potersi permettere almeno un viaggio al mese; e mandare messaggi. A chi? A chi vorrebbe potersi permettere un viaggio al mese...
E nel mentre che l’unico viaggio lo stavano facendo i suoi pensieri, alla ricerca d’una logica impiccata, Pro s’accinse a sfidare una volta per tutte le leggi di quel misterioso equilibrio: raccolse il telecomando, pigiò un tasto e ascoltò la stanza riempirsi di voci come fumo colorato. Posizionò il televideo alla pagina indicata nel messaggio e guardò i numeri scorrere veloci – impaziente, appiccicato allo schermo come se volesse entrarci – finché la pagina arrivò, ma con il testo incompleto, illeggibile. Doveva attendere un altro giro di numeri, un’altra estrazione, un’altra possibilità.
Aveva sempre amato i rebus, ma adesso che dietro la soluzione c’era il suo viaggio premio, continuava a strizzare il telecomando cercando di scaricare l’attesa. Era così determinato a sfidare il misterioso equilibrio che si dimenticò anche della ragione: s’era illuso che il televideo, perché visualizzato dentro il suo televisore, fosse diverso da tutti gli altri; suo insomma, come il televisore, il messaggio e il viaggio premio.
L’attesa venne finalmente premiata, il testo si completò. Pro lesse a voce alta perché ormai era sia sfidante che spettatore.
“Complimenti! Per sapere se hai vinto chiama immediatamente questo numero.”
E per sapere se aveva vinto non si diede nemmeno il tempo di finire la frase che sfilò il telefono dal divano e compose rabbiosamente il numero.
Ormai era dentro un vortice: riconosceva l’assurdità del proprio comportamento, ma era come se non dipendesse più da lui. C’era dentro e doveva arrivare fino in fondo. Sapeva di aver già perso quella sfida folle e inverosimile come l’equilibrio che si ostinava a dimostrare, ma voleva subire una sconfitta totale, umiliante, una sconfitta che fosse anche una lezione per la sua parte da spettatore – almeno quella.
Il numero telefonico continuava a lampeggiare sul televideo mutando la curiosità in patologica ansia.
Due squilli e cadde la linea.
Odiò il telefono – perché avere qualcosa con cui prendersela lo faceva sentir meglio – e ricompose il numero. Questa volta non furono squilli né attese ma una voce femminile dolcissima, colorata e famigliare.
“Siamo spiacenti, il suo credito disponibile non è sufficiente per inoltrare la chiamata.”
“Ma se l’ho appena caricato?”
“Grazie!”
“Prego. Prego. Prego.”
Scagliò il cellulare contro il divano.
Aveva inesorabilmente perso. Da ogni angolazione, da ogni punto di vista, sotto ogni aspetto. Aveva perso in ogni modo in cui si possa perdere una sfida. Aveva perso, perché non gli venisse mai più voglia di sfidare quel misterioso equilibrio.
La fresca brezza del mattino si divertiva a giocare con i suoi capelli ancora umidi, dolce come una piuma, gli faceva il solletico sul collo e ora sul viso – dispettosa e ammaliante come sapeva – sgattaiolava dentro e fuori i polmoni colorando ogni cellula del suo corpo e poi giù, lungo la schiena – brividi – fino a sollevarlo per i fianchi e portarlo via, al di là della finestra, sopra le briciole, oltre i colloqui, trovando nella dolcezza l’unico rimedio per lenirgli le ferite. E ci pensò Pro, dalla prua della finestra aperta, di spiegare le braccia e volare sopra il mercato più grande di Torino, sopra quella piazza che gli riempiva lo sguardo, sopra quel luogo che figurava nei fossili d’ogni suo ricordo. Un mosaico di teloni: gialli, rossi, blu, verdi e bianchi
– che proprio bianchi non erano – un’immensa tela incorniciata dai portici, una tela viva, ordita nell’andirivieni d’un pezzo di Torino; e nell’ammirare il dipinto, si divertiva a leggere le notizie del giorno nel movimento delle persone – come tanti frutti geneticamente controllati – li scrutava dall’alto della sua finestra invisibile, nascosta, come una specie di fantasma, e li scrutava finché la voglia di calarsi nel dipinto non diveniva irrequietezza spiegandogli le braccia al vento.
Affacciarsi a quella finestra era un viaggio che non si poteva vincere e forse nemmeno raccontare, ma era un viaggio realmente suo, un viaggio a cui era strettamente legato.
Si tolse la maglietta – fresca brezza del mattino sulla pelle – e temporeggiò qualche istante ancora davanti alla finestra spalancata. Chiuse gli occhi e sollevò il mento al cielo mentre un largo sorriso gl’impreziosì il volto.
Andò a cambiarsi.
Totalmente avvolto di poesia e immaginazione, per poco non uscì di casa dimenticando le chiavi sul mobile. Chiuse la porta e scese le scale contando i gradini – era di buon umore. Due piani più sotto incrociò il suo vicino di casa: un uomo sull’ottantina aggrappato al mancorrente, occhiali spessi, schiena ricurva sopra un pantalone marrone, bretelle nere e una camicia già sudata.
Silenzio.
Quello proseguì per la sua direzione.
Ancora silenzio, ma questa volta ricevette in cambio uno sguardo serio e compunto.
Se l’era immaginato Pro, che da quand’era rimasto indietro con il pagamento del condominio, alcuni vicini sarebbero stati più lontani; ma lui, proprio lui no. Per anni l’aveva ascoltato con pazienza mentre raccontava e ripeteva gli stessi aneddoti su figli, paese e nipoti. Per anni l’aveva ascoltato finché gli occhiali spessi non s’appannavano di felicità. L’aveva aiutato a sollevare la spesa fin dentro casa, a sistemare la cantina, a ingrassare la catena della bici. Una sera l’aveva anche ospitato a cena – nonostante la camicia. Eppure, silenzio.
Dove mi starà guardando con quello sguardo?
Ma la sconfitta bruciava ancora, e Pro – o almeno la sua parte da spettatore – non volle rischiare un’altra risposta, un’altra sfida. Ebbe paura. Scese velocemente gli ultimi scalini – senza contarli – e aprì il grosso portone di legno: lo scatto dell’apertura riecheggiò nell’atrio, un suono che aveva il sapore di libertà.
Portone aperto.